Grembo: “scelgo io”, Valentina Vitali e il Free Birth

Ciao, io sono Anna Acquistapace e vi do il benvenuto su Grembo

In questo podcast vi accompagnerò attraverso storie di donne e uomini che condivideranno il loro “racconto di pancia”. Lo farò mettendo da parte i preconcetti per raccontare una genitorialità diversa, senza filtri, senza giudizi

Il grembo è il luogo da cui tutti noi veniamo, il nostro porto sicuro, ma è anche la nostra finestra sul mondo. 

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Quando ho immaginato Grembo, ho pensato a uno spazio di ascolto e accoglienza, dove dare voce a storie di nascita vissute da prospettive diverse – storie di donne, uomini e famiglie che, attraverso le loro esperienze, possono aiutarci a riflettere sulla complessità e unicità di ogni nascita.

Ce lo diciamo spesso: ogni nascita è unica, irripetibile. Come ogni persona che la vive.

In questo episodio ascolteremo la storia di Valentina, una donna che ha vissuto esperienze molto diverse tra loro: un primo parto ospedaliero difficile, in Svezia, un parto lungo, doloroso alla fine del quale si è detta “mai più”. E da lì, la scelta di far nascere i suoi figli successivi in casa, da sola, in quello che viene chiamato Free Birth, un parto senza assistenza medica. Una decisione rara, che ha richiesto tempo, ricerca e una forte consapevolezza.

Prima di lasciarvi alle sue parole, ci tengo a fare una premessa importante: questa, come tutte le altre, non è una storia da prendere come modello o suggerimento. È una testimonianza personale, che nasce da un percorso individuale e situato, da valutazioni intime e da un contesto specifico.

Grembo non offre istruzioni mediche né prescrive comportamenti particolari: noi qui raccontiamo storie. Ogni esperienza ci permette di riflettere sulla diversità dei percorsi, sulla libertà e sui limiti, sulle emozioni e sulle possibilità. Percorriamo storie che non pretendono di rappresentare verità universali valide per tutte e per tutti, ma che restano vere.

Sappiamo che il parto implica una serie di parole a cui dobbiamo prestare attenzione: delicatezza, dolore, gioia, rischio. Per questo occorre ricordare che ogni scelta va affrontata secondo la propria sensibilità, perché coinvolge il proprio corpo; e con le giuste informazioni, nel rispetto delle condizioni di sicurezza esperite.

Ascoltare una voce come quella di Valentina può generare domande, disaccordi, curiosità. E va bene così. Perché Grembo è questo: uno spazio dove le narrazioni si incontrano, anche quando non ci somigliano. E dove l’incontro con ogni nuova voce può aprirci a una nuova domanda, con la speranza che sia sempre accolta con rispetto, senso critico e sensibilità.

[Anna] – Ciao Valentina, benvenuta. 

[Valentina] – Ciao!

[Anna] – Benvenuta al microfono di Grembo. Noi siamo live dal festival di Nidi Fioriti [a Seregno, NdR]. Intanto ti ringrazio perché hai fatto un lungo viaggio per venire qui. Valentina arriva dalla Danimarca, paese in cui abiti da quanti anni? 

[Valentina] – Un paio d'anni adesso.

[Anna] – Ok, però so che hai girato un po' al mondo, adesso ci racconterai. E oggi siamo qui perché vorrei dare voce alla tua storia, che è molto particolare, perché non è convenzionale. Valentina, infatti, tu hai praticato il Free Birth, ovvero hai dato alla luce due dei tuoi tre figli da sola, senza assistenza medica. E solo per il fatto che oggi racconteremo questa esperienza, mi preparo alla possibilità che ci siano domande, che sorgeranno dei dubbi, delle perplessità – che sarò felice di accogliere, sempre che vengano condivise con rispetto e con la gentilezza che da sempre caratterizzano Grembo. Questo podcast, infatti, vuole essere uno spazio libero dal giudizio dove condividiamo storie e non verità assolute. Niente dottrine, niente ricette buone per tutte e tutti, solo esperienze che vogliono essere ascoltate con mente e cuori aperti. Quindi, fatta questa lunga premessa, iniziamo, come tutti gli episodi di Grembo con la presentazione, quindi ti chiedo di dirmi chi sei, quanti anni hai, dove vivi, di cosa ti occupi e da chi è composta la tua famiglia.

[Valentina] – Mi chiamo Valentina e ho 39 anni. La mia famiglia è composta da me e mio marito Luca, abbiamo tre figli: Levante che ha 6 anni – l'elenco è lungo, è per quello che guardo in alto [ride, NdR] – Libero che ne ha 3 e mezzo e Sole che ha 5 mesi. Poi abbiamo 27 galline, ne sono nati tre pulcini ieri, quindi ci sono anche loro, no? Però, insomma, gli umani sono quelli, e abitiamo in Danimarca. Io ho lavorato per tanti anni in tv e nel cinema. Poi ho fatto un corso, un'accademia di cucina in Francia, sono diventata uno chef e da lì ho sempre lavorato come chef o in ristoranti o quando, per esempio, ero in Arabia Saudita, poi ci arriveremo, avevo il mio business, e adesso in Danimarca stiamo montando una fattoria biodinamica, che è molto più difficile di quello che credevo.

La storia con Luca, suo marito

[Anna] –  Partiamo proprio da Luca, tuo marito, raccontami un po' dove vi siete incontrati e del vostro girovagare, perché adesso sei in Danimarca, ma io so che avete vissuto in diversi paesi. Raccontami del vostro incontro e anche del momento in cui avete parlato della possibilità di diventare genitori. È stata una decisione istintiva o ragionata?

[Valentina] – No, come (quasi) tutto quello che mi riguarda è stato fatto “a caso”. No, allora, io e Luca ci siamo incontrati quasi 20 anni fa: lui era in quinta liceo e io ero al secondo anno di università e, semplicemente, avevamo degli amici in comune. Lui in realtà a me era piaciuto abbastanza subito, a lui, invece, neanche morto, proprio. Infatti vabbè, un inizio un po' così. E poi siamo diventati veramente migliori amici; siamo stati incredibilmente amici per un sacco di anni. C'è questa cosa che ho sempre amato di lui, ovvero che l'ho sempre trovato la persona forse che, più di tutti, mi capiva e non ha mai cercato di cambiarmi, di modificare qualcosa di me. Mi sono sempre sentita ascoltata e amata, così com'ero, da lui. Innanzitutto tutto come amica, all'inizio, e poi a un certo punto io abitavo a Londra e lui, in quel periodo lì era in Svizzera, se mi ricordo bene, sì, Ci stavamo sentendo, come al solito, e le conversazioni hanno cominciato a prendere un pochino, insomma, un'altra via e poi ci siamo visti e, abbastanza in fretta, ci siamo ritrovati innamorati. 

Poi io ho iniziato a “seguire” lui. Nel senso che, dunque, io mi sono laureata e ho studiato a Milano, poi sono andata a lavorare, appunto nel cinema, a Roma. Da lì, siccome ero innamorata di un direttore della fotografia – avevo questa storia terribile – sono dovuta “scappare” fondamentalmente e sono andata a vivere a Berlino, dove mi sono messa insieme a un ragazzo tedesco. Sono stata là quasi un anno. Poi da lì, siccome quella storia lì stava finendo, ho deciso di raggiungere mio fratello che stava lavorando a Londra e quindi ho lavoricchiato anch'io lì. Ho cominciato un pochino a lavorare nei ristoranti, così, in maniera amatoriale, a Londra. E poi da lì, appunto, è iniziata la storia con Luca. E ho iniziato a seguire lui. Lui è un ingegnere e stava seguendo la carriera accademica: aveva vinto il posto per il dottorato e quindi siamo andati in Francia e Svezia, per il suo PhD, poi ha fatto il post-doc in Arabia Saudita. Quindi io, quando siamo arrivati in Francia, mi sono formata come chef, e da lì ho iniziato a lavorare seguendo poi lui, quindi Francia, Svezia, Arabia Saudita e adesso Danimarca.

[Anna] –  Beh, è un bel un bel giro!

[Valentina] – Ho un panorama un bel po' ampio.

[Anna] – Sì, certo, internazionale.

La possibilità di diventare genitori

[Anna] – E quando avete parlato della possibilità di diventare genitori, se ne avete parlato?

[Valentina] – Abbiamo fatto un pochino un “salto nel buio”, nel senso che ci amavamo, ci volevamo sposare e io ho sempre voluto dei bambini, quindi era comunque nel nostro orizzonte. Penso che quando decidi di diventare genitore, soprattutto la prima volta, è difficile fare una scelta dove tu proprio te la senti ed è ponderata – credo. Perché non è una cosa che conosci semplicemente, quindi ovviamente ti butti un po' nel buio. Penso che abbiamo fatto un po' così, cioè abbiamo un po' iniziato a provarci, eh, e io, come spesso faccio, l'ho presa molto seriamente, in modo molto metodico. Ma in realtà, poi, nel giro di due mesi ho detto «va bene, ok, mi sto stressando troppo, vediamo un po' cosa succede», e in quel secondo lì sono rimasta incinta!

[Anna] –  Quindi lì, in quel momento, dove abitavate?

[Valentina] – Eravamo in Svezia.

[Anna] – E com'è andata la gravidanza? Intanto, quando l'hai scoperto? Come ti sei sentita?

[Valentina] – Eh, è strano quando fai il test, ed è la prima volta (in realtà sempre, ma quando è proprio la prima volta!). Mi ricordo che era mattina prestissimo e io sono andata in cucina, gli ho detto «Oh mio Dio!», e lui felicissimo mi fa «Che bello!». Io ero tipo “oddio”, perché è una roba troppo gigante, nuova, cioè, capito? Poi ero la prima, tra le persone che conoscevo, che era incinta, quindi, insomma, abbastanza spaesante, però bello.

[Anna] – Ma quanti anni avevi?

[Valentina] – 32! Vecchissima per la Svezia.

[Anna] – No, no “vecchia” no!

[Valentina] – No, no, per la Svezia, non in generale. Mi dicevano letteralmente “sei un dinosauro!”. Veramente, eh! Anche in Danimarca è così. Tipicamente i nordici verso i 22 fanno il “primo giro” di figli e matrimonio, e verso i 40 il secondo giro di figli e matrimonio, con altra gente! Però i miei amici, insomma, nella ristorazione era tutta gente single o sposata senza figli. Però bello, bellissimo.

La prima gravidanza in Svezia

[Anna] – E com'è andata la gravidanza?

[Valentina] – Bene e male. Bene, nel senso che io, comunque, ero serena in Svezia. Lì non hai il medico di base come qui, hai una specie di “clinica di base”, diciamo, quindi tu chiami loro per qualsiasi cosa hai bisogno. Quando sei incinta ti assegnano un'ostetrica, una midwife, che ti segue per tutta la gravidanza e, però, poi non è mai quella che in verità ti troverai in ospedale. In ospedale ti trovi sempre quelle di turno. Super carina la mia ostetrica, si chiamava Sara. In Svezia l'approccio è veramente poco invasivo, cosa che a me all'epoca invece non piaceva, mi provocava molto disagio questa cosa che, ad esempio, non fanno esami per la toxoplasmosi. Zero. Quando gliel'ho detto non sapeva neanche di che cosa stessi parlando. Siccome ero paranoica e mi sono fatta fare tutti i test del mondo, ho fatto mandare il mio sangue apposta in un laboratorio di un'altra città, perché quello della mia città non aveva i marker per testare la toxoplasmosi.

[Anna] –  Interessante.

[Valentina] – Già. Quindi insomma ho fatto una marea di esami, e li ho anche dovuti convincere. Diciamo che l'approccio sia svedese, ma appunto anche danese, nordico in generale, non è come “da noi” che è basato un po' sulla prevenzione e anche un po' sull'ansia: subito l'antibiotico, subito la medicina, subito l'esame. Da loro è più “aspettiamo, cominciamo a vedere un attimo il corpo come reagisce e poi nel caso interveniamo”. Ci sono dei pro e contro di entrambi gli approcci. Lì sicuramente il “contro” è che quando hai veramente bisogno devi un pochino “spingere” perché sennò, insomma…

[Anna] – Diciamo che questo approccio tu lo vivevi comunque con un po' di ansia?

[Valentina] – Super [ansia, NdR]! No, io lo trovavo folle. Noi ci siamo sposati che ero incinta di tre mesi, e dopo, quando ero al quarto mese, siamo andati all'isola Mauritius, in viaggio di nozze, e io mi sono fatta fare dei test anche lì. Perché sapevo che in Italia, se non mi sbaglio, più o meno appunto la toxoplasmosi, per esempio, la fai ogni mese, e lì te la facevano con €30. Mi sono fatta fare il test della toxoplasmosi. Quindi io mi sono fatta fare test su test e ho anche convinto la mia ostetrica svedese, mentendole, per farmi l’amniocentesi, perché è una cosa che non fanno assolutamente, a meno che non ci siano veramente delle indicazioni mediche importanti.

[Anna] – No, tra l’altro non vorrei dire una cosa sbagliata, ma guardo verso i medici che sono là in fondo. L’amniocentesi non è un test che qui viene fatto di default. No, infatti, assolutamente.

[Valentina] – No, infatti io le ho mentito, l'ho “bullizzata”, le ho detto che sarei morta d'ansia se non facevo questa cosa, perché avevo dei casi di sindrome di Down [trisomia 21, NdR] nella mia famiglia. Assolutamente, ho mentito.

[Anna] –  Volevi essere tranquilla?

[Valentina] – Sì, volevo essere tranquilla. Ovviamente il mio approccio adesso è completamente diverso, però all'epoca io ero abbastanza certa che, se fosse saltato fuori qualcosa… Ovviamente ho fatto anche lo screening del sangue, tutto.

[Anna] – Del DNA fetale.

[Valentina] – Esatto. Però io all'epoca pensavo che se fosse saltato fuori qualcosa probabilmente avrei abortito, quindi volevo avere, diciamo, la certezza proprio al 100%. E avevo capito che, insomma, l'unica strada era passare per l'amniocentesi e quindi l'ho convinta. E poi, vabbè, la gravidanza, più o meno, fisicamente è andata bene, dal punto di vista del bimbo. Io però purtroppo con tutte le gravidanze ho avuto l'iperemesi, quindi ho vomitato dal giorno 1 fino al travaglio praticamente, circa ottocentomila milioni di miliardi di volte al giorno. Terribile!

[Anna] – Terribile, veramente, mi spiace. Però sei arrivata a termine quando?

[Valentina] – Sì, sì. Levante è nato veramente a 40 settimane spaccate, anche Libero.

«Credevo di essere preparata al parto»

[Anna] – Ti eri preparata? Come funziona in Svezia? Ci sono dei corsi di preparazione alla nascita fatti dagli ospedali?

[Valentina] – Allora, sì, però io ero in un paesino super piccolo nel nord della Svezia, quindi tutto quello che c'era, era in svedese! E quindi io ho comprato un corso online di Hypnobirthing, dove ti insegnano tutte quelle cosine lì tipo la respirazione. Mi ricordo questa cosa, il J-breathing, per cui quando spingi devi pensare a questa J, questo respiro che “ti va giù”. Vabbè, tutte cose che poi ho capito magari non essere super utili. Però insomma c'era una parte sia sulla fisiologia del parto che poi, appunto, sulla respirazione. Quella è stata un po' la mia preparazione, diciamo che credevo di essere preparata.

[Anna] – Quindi sei arrivata a termine, avevi fatto il tuo corso, e sei arrivata in ospedale, quindi, con un travaglio che era avviato?

[Valentina] – Io ho iniziato a sentire contrazioni tipo la mattina di tre giorni prima del 21 luglio, perché Levante è nato la sera del 21 luglio. E io ho questo rapporto terribile col dolore, proprio super conflittuale. Sai, ci sono varie tolleranze del dolore e vari modi di affrontarlo; io penso di avere una tolleranza bassissima, cioè anche quando mi rendo conto che veramente sto provando un dolore piccolo, comunque impazzisco. È ovviamente difficile arrivare veramente preparati, la prima volta, al parto, se non hai un certo tipo di accompagnamento. È una cosa talmente grande, no? Però io penso di aver fatto veramente un errore, di aver creduto che quel corsetto fosse sufficiente. 

In realtà io non ero preparata per quello che avrei vissuto e per come – soprattutto mentalmente, non tanto fisicamente, ma proprio mentalmente – prendere gli avvenimenti che stavano per accadere. Non avevo idea e, secondo me, ho iniziato molto male, cioè ho iniziato veramente arrabbiandomi. 

E le contrazioni, tra l'altro veramente le ho avute abbastanza in fretta, cioè io ho iniziato la mattina e già tra le 6 e le 7 della sera sono diventate molto veloci, molto ravvicinate. Io avevo l'app per misurarle e praticamente l'app mi dava una sorta di alert rosso, del tipo, “corri in ospedale”!

[Anna] – Red flag!

[Valentina] – Esatto! E io ho pensato “mazza, cioè, sono una di quelle super fortunate che tra 5 minuti partorisce”. Quindi prendiamo la macchina e andiamo in ospedale. Un viaggio terribile, dolorosissimo: 20 minuti, tutto saltelli. Poi siamo arrivati e, diciamo, l’ospedale in generale era chiuso, quindi dovevi passare per il pronto soccorso. Così mi fanno aspettare per entrare, poi mi fanno fare tutto un passaggio, un percorso lunghissimo, labirintico, e alla fine mi prende in carica questo infermiere. Lui vede che continuo ad avere contrazioni così ravvicinate e mi fa: «Eh, ma bellissimo, tra poco partorisci, che figata». 

Check vaginale, stop delle contrazioni e gas

[Valentina] – L’infermiere mi dà all'ostetrica, e l'ostetrica mi fa il check vaginale – cosa di cui io avevo sentito parlare, avevo sentito dire che si poteva rifiutare. Però, diciamo che sapevo più o meno cosa fosse, che era necessario; perché sennò come fai a sapere a che punto sei? Ma avevo anche sentito dire che «Massì, boh, lo puoi rifiutare», però non avevo veramente capito perché. Quando me l'hanno fatto, ho capito il perché.

[Anna] – Perché hai sentito dolore?

[Valentina] – Non credo di aver mai sentito un dolore così nella mia vita. Però devo dire che quella è stata la prima volta, forse, nella mia vita, che ho vissuto un dolore così imposto e così, non so come dire, non necessario quasi. Non non so come spiegarlo, però mi è sembrato veramente una tortura, ma veramente.

[Anna] – Lì, ad esempio, mentre succedeva questa cosa, tu le parlavi? Le dicevi tipo “ho male, fermati” o altro?

[Valentina] – Non le ho detto mai “fermati” e non credo di averlo mai detto a nessuno, perché durante tutto il parto di Levante io ero convinta che qualunque cosa stesse succedendo fosse necessaria. E mi ritengo, insomma, una donna forte. Quindi, se una cosa è necessaria, soprattutto per i miei figli, si fa. Punto. Quindi io non credo di aver mai detto “no, no, no”, però mi ricordo di aver pianto, di aver gridato, di essere sorpresa, ma non tipo "fermati, non farmelo”, bensì ok, dobbiamo farlo. Ma è stato veramente disorientante quel dolore lì. Io non me l'aspettavo una cosa del genere.

[Anna] –  E poi com'è andata avanti? Quanto tempo è passato?

[Valentina] – Allora, lì mi hanno fatto questo check e mi han detto «ah ah ah, sei 0.1cm» quindi…

[Anna] – Porta pazienza!

[Valentina] – Eh, magari m’avessero detto così! Cioè, io penso sempre a questo: se in quel contesto io avessi avuto un'ostetrica che sapeva fare il suo lavoro e m'avesse detto «Sei spaventata, è la prima volta che partorisci, io sono qua con te, vai tranquilla, ce la facciamo». Invece questa qua mi fa: «Guarda, sei 0.1 cm, non è niente, quindi devi tornare a casa. Io ti vedo molto stanca e, se vuoi, quello che posso fare è darti una serie di pillole», che sinceramente, ad oggi, ancora non so neanche cosa fossero. Mi ricordo che c'era della tachipirina, le altre non lo so. E lei mi fa: «Se vuoi così stoppiamo il travaglio, perché io ti vedo molto stanca». Perché io le avevo anche chiesto quanto tempo ci volesse per partorire, e lei mi aveva detto tipo «guarda, secondo me, adesso, qua ne avrai, non so, altre 24 ore», capito? Io le avevo anche detto: «Ma farà più male di così?», e mi ricordo perfettamente – come se ce l'avessi davanti, come adesso vedo te – questo ghignetto del tipo «non hai capito un c****» e lei che mi dice «sì, farà più male».

Metti insieme il ghignetto e il fatto delle 24 ore e forse di più, quando mi ha presentato questi farmaci che avrebbero stoppato il travaglio, ho detto «certo, subito, datemeli!». Quindi li ho presi, si sono fermate le contrazioni e siamo andati a casa. Il giorno dopo abbiamo rifatto praticamente un po' la stessa cosa: mi iniziano le contrazioni la mattina, aspettiamo un po', aumentano, aumentano, aumentano, andiamo in ospedale, check vaginale. A quel punto lì, siccome avevo capito un attimino l'antifona, loro hanno preso il gas. Non so se c’è anche in Italia il gas?

[Anna] – No, mi dicono di no.

[Valentina] – Ok, perfetto. E da noi invece, in Svezia, c'era il gas. Quindi, cioè, ho cominciato a inalare gas.

[Anna] – Ma il gas serviva per tranquillizzare?

[Valentina] – Sì, credo che sia quello che danno anche negli Stati Uniti i dentisti. È un gas che ti droga, sostanzialmente, ma dura molto poco. Cioè tu prendi un'inalata, “esci un attimino di testa”, nel giro di 10-20 secondi, a seconda di quanto ne hai tirato su, e ritorni in te. Quindi l'idea è: quando tu stai affrontando una contrazione o un dolore, nel picco del dolore, tu prendi una boccata di gas. It takes the edge off, dicevano. In sostanza togli un po' la punta del dolore e poi ritorni in te. Mai vero! 

Perché se c'è una cosa, secondo me, che una persona nel parto non deve fare, è proprio non essere lì. 

Quando siamo arrivati poi, la seconda sera, io ho preso questa boccatona di gas sperando che mi aiutasse, e sì, in un certo senso mi ha aiutato, ma io da lì in poi, insomma, ero veramente deconcentrata. E alla fine abbiamo rifatto un po' la stessa cosa del giorno prima, cioè: «Adesso sei 2-4 cm, però è ancora poco, hai ancora tanto tempo. Ecco qua le pillole, le vuoi prendere?». Sì, le prendo. Però in quel caso mi hanno ammesso, e lì di fianco all’ospedale c’era un hotel, quindi abbiamo fatto il check-in, mi si sono bloccate le contrazioni e poi la mattina dopo sono ricominciate e andate. A un certo punto siamo andati in sala parto.

Verso i 4 cm: la rottura delle acque 

[Valentina] – Ho fatto questo travaglio, non so quante ore, però veramente tante, veramente veramente tante. Sempre puntando a questi cavolo di 4 cm. Perché, fondamentalmente, a un certo punto, quello che io avevo capito è: se io arrivo a 4 cm, faccio l'epidurale, passano 20 minuti e bom, insomma, questa tortura è finita.

[Anna] – Dici “da qui è tutta in discesa”.

[Valentina] – Esatto, e invece…

[Anna] – E invece? Che cosa è successo dopo?

[Valentina] – Invece no. Perché in tutto questo io continuavo a prendere gas, quindi ero veramente fuori di me, nel senso, sai come quando hai 16 anni e sei ubriaca e vomiti in giro? Così! Non stavo vomitando, però avevo sensazioni fisiche di disgusto, ma ero anche confusa della serie “ommioddio, che cosa mi sta succedendo, ma io non voglio stare qua a fare questa cosa”. Era troppo da gestire. Io, per storia familiare e personale, ho questa cosa che se ho una via d'uscita, soprattutto tramite l'analgesia, vado subito

Quindi, appunto, continuavo a sperare di arrivare a questi 4 cm. Sono entrata e uscita dalla vasca perché mi dicevano «Vai in vasca che magari ti rilassi». A un certo punto, finalmente, mi fanno un check e mi dicono «Sei a 4 cm!, evvai. «Però non hai ancora le acque aperte, quindi te le dobbiamo rompere». Ok? Anche lì, io non sapevo veramente cosa volesse dire questa cosa. Nel senso, boh, okay, mi fido, certo, se è quello che dobbiamo fare! E, anche lì, il dolore che ho provato è veramente quello “della tortura”, non so come dire.

[Anna] – Per la rottura delle acque?

[Valentina] – Sì, io lì pensavo, appunto, che tutto fosse necessario, e quindi ho detto a tutto di sì. Mi sono solo mandata giù il dolore perché “questo è quello che bisogna fare”. Punto, capito? 

[Anna] – Questa rottura delle acque ha velocizzato il parto dopo? 

[Valentina] – No, secondo me quello che ha velocizzato, poi, secondo me, è stata un pochino l'epidurale, che però a me non ha fatto effetto. Io credo [che sia stata l’epidurale, NdR] – non me l'hanno spiegato, è una sensazione mia. Perché poi mi hanno consegnato questo grafico; non so se si fa anche in Italia, ma in Svezia ti consegnano un grafico, tipo un piano cartesiano, dove tu vedi la linea di progressione del tuo parto e a un certo punto si vede che io da 4 cm schizzo a 10. Secondo me, mi ha aiutato un pochino a livello fisico proprio la droga, non so come dire, in termini di dilatazione e non di dolore.

Quando l’epidurale non fa effetto

[Valentina] – “Siamo a 4 cm, abbiamo rotto le acque, abbiamo posato la IV” – mi vengono un sacco di parole in inglese [intravenous, NdR], cioè la flebo. E da qui, epidurale. Epidurale che, anche lì, io non avevo capito di cosa stavamo parlando. Ovvero, non avevo capito che con le contrazioni devi stare ferma, immobile, mentre ti infilano una roba nella spina dorsale – che già solo quella fa veramente male. Comunque, insomma, facciamo tutto questo con l’idea che adesso finalmente sta cosa terribile, sta tortura, finisce e loro continuano a dirmi «20 minuti, 20 minuti, 20 minuti» e io mi ricordo che guardavo l'orologio di fronte a me, vedevo passare i minuti: ne passano 10, ne passano 15, 20, 25, 30, 35, e non cambia niente.

[Anna] – Non faceva effetto?

[Valentina] – No, l’epidurale non faceva effetto. Quindi li richiamo dentro e loro lì cominciano un po' a “scocciarsi”, perché secondo loro stavo facendo un po' troppo casino, perché cioè «alla fine stai solo partorendo, no?». Quindi mi dicono: «Ok, richiamiamo l'anestesista, posiamo un'altra epidurale». Ok, di nuovo mi dicono «20 minuti e fa effetto». 

E lì la cosa che ho capito – diciamo soprattutto adesso, dopo tutte le mie esperienze – la cosa tragica è che io mentalmente aspettavo solo quello: io non non stavo più seguendo quello che stava accadendo, perché tutta la mia speranza era quella epidurale lì. 

Passano altri 20 minuti, 30 e 40 e non fa effetto. Quindi li richiamiamo, mi dicono: «Ok, adesso capiamo, andiamo a cercare l'anestesista», se non che scatta un'emergenza in un'altra stanza, quindi mi mollano lì, nuda, con una mezza terza epidurale fatta, mezza no. 

Il primo parto, il tough love in ospedale: Levante

[Valentina] – C’era questa ostetrica che poi mi diranno, «lei è l'ostetrica più brava che c'è in ospedale». Io sono nuda sul lettino, sdraiata, ferma immobile che le dico, «vi prego, ma fate qualcosa, ma perché non finisce questo dolore?», e lei che mi sbotta e mi dice «Ascoltami, nell'altra stanza c'è una che sta morendo, tu non vuoi essere lei, tu stai solo partorendo, datti una calmata, piantala». Così, tough love. E io faccio, «Ok». E poi da lì, diciamo, i miei ricordi non sono chiarissimi, proprio perché ero veramente drogata. 

Poi succede che mi alzo in piedi, perché avevo iniziato a spingere dopo le epidurali che non avevano funzionato, e guardo l’ostetrica – quella che mi aveva urlato – e le dico: «Guarda che sto per partorire», e lei mi fa: «No, non stai per partorire. Io vedo sul monitor che il bambino non sta nascendo. Quindi no, non stai per partorire». Veramente, con questo tono. E io ovviamente dico “vabbè certo, se lo dice l’ostetrica, ovviamente sarà così, no?”, pensavo che stesse per arrivare, però allo stesso tempo, insomma, se la professionista che c’è lì mi dice che non è vero, io credo a lei. 

A un certo punto mi cominciano a tirare verso il lettino perché dicono «Dai, è meglio se magari spingi da sdraiata, perché sennò poi ti laceri, vogliamo guidare fuori la testa del bambino, così ti aiutiamo». Nel mentre che mi tirano sul lettino, la testa di Levante era già nata ma loro non si erano accorti. Quindi mio marito mi acchiappa, mi tira indietro e dice «Guardate che sta uscendo il bambino!». Io mi stavo sedendo su di lui praticamente!

Poi non mi ricordo bene le dinamiche fisiche, però mi ricordo di essermi ritrovata a un certo punto sul lettino, sdraiata. Levante è uscito e la cosa dopo che mi ricordo è lui su di me: grande gioia, felicità, io che ringrazio l'ostetrica «grazie, avevo bisogno di questo tough love, sei stata grande, mi hai motivato». E insomma e poi quando arriva il bambino ovviamente tutto quello che è successo va via, perché, cioè, è arrivato, è finito quel dolore lì, finalmente vedi tuo figlio in faccia, quindi, questo. 

[Anna] – Tiro un po' un respiro, perché ovviamente non è un racconto facile da ascoltare.

[Valentina] – Ma sai che non lo sapevo neanche? Io me ne sono resa conto, vabbè, poi ci arriviamo. Però me ne sono resa conto tantissimo tempo dopo!

[Anna] – Eh, no, ma infatti, perché è una cosa che penso che vada metabolizzata, e che quindi è uscita dopo questa consapevolezza di come era andata. Mi dicevi che te l’hanno dato in braccio, tutto “bellissimo”, e poi che cosa è successo?

[Valentina] –  Sinceramente, con alcune variazioni dal meno peggio all’estremamente peggio, questo per me era un racconto “normale” di un parto. Nel senso che io non è che sono uscita da lì e ho pensato “ommioddio, cosa mi hanno fatto?”. Perché poi mi hanno dato i punti, quindi diciamo che, tutto sommato, emotivamente mi sembrava di essere ok, non era il primo trauma che subivo nella mia vita. Fisicamente faticosi i punti, però non è che avevo avuto un cesareo o mi era stato fatto un forcipe, o qualcosa di incredibilmente invasivo di cui proprio ti porti i segni nel corpo, no? E poi, appunto, la mia esperienza rispecchiava tutte le esperienze che avevo sempre sentito. 

Sinceramente io quello che pensavo è partorire fa schifo, cioè partorire fa male e lo dicono tutti, è il dolore più grande della tua vita e in effetti, la mia esperienza provava quella roba lì.

Il post-partum: da “mai più” al secondo figlio

[Anna] – Però qualcosa è cambiato perché, effettivamente, dopo questa prima esperienza di parto, mi confermi che non ti sei fatta nessuna promessa tipo “la prossima volta sarà diverso” o “mi impegnerò per fare in modo che sia diverso”?

[Valentina] – Io mi sono solo promessa che era l'ultimo figlio!

[Anna] – Eh beh, questo penso che nel post-partum sia un pensiero comune a tutti, anche per i parti più facili!

[Valentina] – Da un lato, magari, sì…

[Anna] –  Adesso mi dirai invece per i prossimi!

[Valentina] – Ma infatti, guarda, mio figlio Levante, si chiama Levante Libero, come il secondo [figlio] che si chiama Libero, perché a me piaceva sia Levante che Libero, tantissimo, che vengono da Il Ciclone di Pieraccioni, tra l'altro. Ma siccome ho detto “col cavolo che io rivivo questa cosa qua”, allora glieli ho dati tutti e due, perché [pensavo che] non avrò mai più l’occasione di chiamare un bambino Libero, capito? “Non mi ripigliate più a fare sta roba qua”.

[Anna] – Quindi eri proprio convinta!

[Valentina] – Ero convintissima, la promessa era «one and done», cioè mai più! Ma non avendo la percezione di aver subìto qualcosa, non avevo una vera e propria promessa, tipo “mai più mi farò fare…”. Era mai più e basta.

[Anna] – Invece pare che sia fisiologico che a un certo punto dimentichiamo il dolore. Perché sennò faremo solo figli unici. O, comunque, qualcosa cambia, nel senso che possiamo cambiare anche idea. Cosa è successo a te? Intanto, com’è andato anche il post-partum con Levante? E volevo chiederti, poi, dopo quanto è nato in te il desiderio di un secondo figlio?

[Valentina] – Ma no, il post-partum, vabbè, costellato ovviamente dall'ansia, come tutta la mia vita. Ansie tipo: soffoca? sta respirando? Però, bene, con tutti i miei figli, io sono stata molto fortunata che sono tutti dei bambini facili. Tutto sommato è stato tranquillo, poi mio marito è andato in paternità, non è che ci sono un giorno e mezzo di paternità come qua in Italia.

[Anna] – Almeno su quello la Svezia è davanti a noi!

[Valentina] – Guarda, mi sembra, se mi ricordo correttamente, che arrivi ai 2 anni tra padre e madre. È assurdo! A parte che, ovviamente, non puoi essere licenziato, cioè ovviamente. Ma la cosa allucinante – questo non ce l'ha neanche la Danimarca – è che in Svezia con il parental leave, tu hai un minimo di 3 mesi obbligatori per ogni genitore, e il resto te li rimpalli come vuoi. E non devi prendere per forza giornate intere tu puoi prendere: quarti, mezzi, tre quarti o una giornata intera, il che vuol dire che io mi segno dei quarti di giornata, che mi paga lo Stato, chiamo il mio datore di lavoro e gli dico “io da oggi voglio lavorare dalle x alle y” o “voglio lavorare due giorni a settimana” e loro sono obbligati a farlo, capito?

[Anna] – Spero ci arriveremo anche noi!

[Valentina] – Sì! E quindi lui era a casa, insomma, Luca era a casa- È stato bello, poi era estate in Svezia, bello, bello. E poi, mi avevi chiesto un'altra cosa?

[Anna] – Quand’è che hai pensato “ok, andiamo avanti, ne facciamo un secondo”.

[Valentina] – Venendo da una famiglia in cui i miei genitori sono figli unici, non ho mai avuto cugini. Poi la nostra famiglia, insomma, è un po' travagliata, quindi io ho sempre voluto la “famiglia gigante” che ti trovi a Natale, che sei in 75, che parli con lo zio che ti chiede se ti sei già sposata oppure no. Io ho sempre voluto quella roba lì, capito? E quindi anche se non ti so dire il momento preciso, anche adesso mi dicono «ma ancora ne vuoi fare un altro?». Ma, secondo me, io ne vorrò sempre fare altri, perché io voglio quella roba lì del Natale gigante, capito?

[Anna] –  La tribù!

[Valentina] – Sì!

L’approccio al Free Birth

[Anna] –  E allora arriviamo al clou, al cuore, di questa intervista. Quando hai sentito per la prima volta parlare di Free Birth? Cioè quando hai scoperto che ci sono donne che partoriscono da sole, qual è stata la tua reazione? Hai pensato che era una follia? E poi cosa ti ha fatto cambiare prospettiva?

[Valentina] – Quando io ho iniziato a raccontare com’è andato il parto, chiunque, donne, uomini, tutti i miei amici, hanno reagito semplicemente prendendo la storia e dicendo «ah, okay», perché questo, appunto, è il racconto dei parti. Quindi nessuno mi ha detto “ommioddio, cosa ti è successo?”, no, normalissimo. Tranne una mia amica. Lei lavorava a Milano e ha lavorato anche un po’ a Roma con me, in pubblicità, era una producer, e a un certo punto ha mollato tutto: è andata in giro per il mondo, è diventata un'insegnante di yoga, e adesso sta in Costa Rica. Quindi lei per me – che all'epoca ero super medicalizzata, nel sistema – era la mia amica fricchettona. Le racconto la storia del parto di Levante e lei rimane scioccata, e mi dice «Ma tu ti sei resa conto di cosa hai vissuto? Cioè l'ostetrica ti ha gridato?». Lei non ha figli tutt'oggi, ha un paio d'anni più di me, e la mia reazione, dentro di me, è stata «Ma cosa ne sai? Cosa ne sai te che non hai mai partorito?». Pensavo che questo fosse il parto, questo è quello che accade. E lì lei mi parla di Free Birth Society, e io penso “bene, ecco l’ennesima cosa fricchettona della Enri che mi deve parlare di queste cose qua”. Però insiste e mi dice di ascoltare il podcast

Io ascolto il podcast, e adesso sono al settimo anno, credo, quindi ci sono già su alcune centinaia di storie. Siccome erano tantissime, scorro, scelgo a caso e capito su una storia particolarmente fricchettona: una ragazza racconta che ha partorito alle Hawaii, sotto il chiaro di luna, in questa piscina che però era un po’ fredda, perché loro non avevano l’acqua calda; allora gliel'hanno riempita ai vicini, ma poi è finita l'acqua calda, poi c'era il fuoco acceso e lei ha partorito sotto la luna. Io ascolto sta cosa e penso “questa qua è scoppiata, cioè matta dai, ma cos'è sta roba qua?”. Tra l'altro una delle mie paure più grandi con Levante era partorire a casa o in macchina perché l'ospedale era a 20 minuti, cioè per me era una follia. 

Io non ti so dire, non ti so spiegare a parole quanto folli, quanto pericolose, ma proprio non necessarie, mi sembrassero queste storie quando ho iniziato ad ascoltarle. In realtà, secondo me, è stato anche un po' serendipity [una scoperta casuale, NdR], è stato un po' il destino che mi ha fatto capitare su una storia così scioccante, così diversa, all'inizio, per farmi proprio aprire gli occhi, per acchiapparmi l'attenzione e dire “magari qua c'è qualcosa di veramente diverso”, non lo so. 

Io – come penso si capisca – sono una persona abbastanza outgoing, no? È facile parlare con me: ho sempre avuto tanti amici, ho girato tanti posti, quindi ho sempre avuto occasione di parlare con tante donne. Ho sempre avuto tante amiche donne e ho sempre sentito tante storie di parti, che erano esattamente come quella che avevo vissuto io, alcune molto peggio, alcune un po' meglio, ma di base il vissuto era: che male, che difficile, che paura. Invece no, ascolto Free Birth Society e capisco che solo chi ha partorito la prima volta in ospedale racconta questa cosa qua, poi incontrano anche loro in qualche modo il Free Birth, partoriscono a casa da sole ed è l'esperienza più bella della loro vita. È quello che mi ha fatto scattare qualcosa: non perché non è doloroso o è veloce. 

C'è dentro di tutto: c'è il parto che dura 3 giorni, c'è il parto che dura 20 minuti, c'è il parto estatico e orgasmico, c'è il parto doloroso dove uno pensa di stare per morire. E queste donne qua erano contente. 

Io continuavo a sentire queste storie e sentire la contentezza, non solo nel momento e dopo che il bambino è nato, ma la contentezza anche nel riverbero che quella roba lì ha avuto nella loro vita. E io ho continuato ad ascoltare per quello: perché da una parte ho un mondo che funziona tutto in un altro modo, e quest’altro mondo qui che è veramente strano, veramente lontano da me. Però loro sono contente in una maniera che qua non esiste e io voglio andare .

Fare i conti con il rischio

[Anna] – Di recente parlavo con un ginecologo ed è emersa una riflessione. Mi diceva che sommando tutte le possibili complicanze della gravidanza e del parto si arriva a una percentuale di rischio che si aggira intorno al 7%. Nella nostra cultura occidentale quel 7% è considerato alto, tanto da giustificare un approccio medicalizzato al parto, anche quando tutto sembra procedere bene, quando diciamo che è fisiologico, no? Per te, invece, che cosa ti ha portato ad accettare quel 7% come un rischio gestibile oppure, al contrario a focalizzarti su quel 93% in cui tutto può andare bene? Cioè, cosa ha fatto scattare in te questo cambiamento da “Non fa per me, queste sono fricchettone, un po' pazze” a invece “ok, adesso lo faccio”?

[Valentina] – Allora, secondo me, per rispondere a questa domanda, prima di risponderti voglio farti vedere come ragiono io adesso, come ho imparato a ragionare, come spero e penso che tutte le donne dovrebbero ragionare. Se un medico mi avesse detto questa stessa cosa che è stata detta a te, quando ero incinta di Levante, io avrei semplicemente assunto l'informazione. Adesso io non faccio più così. Adesso mi faccio delle domande. Allora, 7% detto così non vuol dire niente. Queste cose qui non le dico per essere “confrontativa” con te, ma solo per farti vedere come ragiono.

Allora, ti faccio un esempio per capire un pochino come funzionano le percentuali. Adesso io e mio marito stiamo cercando una casetta in Puglia, e c'è una mia amica che ha già comprato un trulletto in zona Ceglie, quindi sto chiedendo un po' di informazioni a lei. E l'altro giorno le chiedo se ha un contatto di un geometra da passarmi e lei mi fa «Lascia perdere, non puoi capire. Io è un anno che cerco un geometra, sono tutti deficienti, non riesco a trovarne uno». E, conoscendola, io ho pensato che avrà chiamato un sacco di gente, che adesso avrò anch'io questo problema. Poi dopo un po' mi manda un altro messaggio e mi fa "Cioè tu pensa che ne ho già sentiti due, due su due dei deficienti?" e quindi, dopo che m'ha detto sta cosa, ho detto "Ah, ok, solo due". E questo per dirti che cosa? Che l'informazione che lei mi ha dato, cioè “tutti i geometri che io ho sentito sono dei deficienti”, è corretta, cioè il 100% di quelli che ha sentito sono dei deficienti, però io non posso interpretare il numero che lei mi ha dato se io non ho tutta una serie di dati di contesto. Quindi, per esempio, cioè il 2 in sé e per sé non è né alto né basso, no? Però se io so che in Puglia ci sono soltanto due geometri, allora il 100% dei geometri sono deficienti. Se sono 100 è il 2%, se sono 1000 è lo 0,2%.

Secondo me i numeri assolutamente hanno un senso. Perché anch’io ho fatto queste ricerche e mi orientano i numeri, ma la cosa che trovo è che quando tu guardi su Instagram, quando tu parli con anche l'ostetrica o il ginecologo che ti fa divulgazione su Instagram, che ti parla nel suo studio, non ti sta fornendo le informazioni così come dovrebbe. E non lo dico per una puntigliosità matematica, ma perché se tu mi devi dare un dato, e io devo interpretarlo correttamente, e scegliere una cosa o un'altra su un dato, su un numero, allora me lo devi presentare in un certo modo perché io devo sapere di cosa sto parlando

Per esempio, quindi, questo 7% qua di rischio è in Italia? È in Svizzera? È tutto il mondo? È quest'anno, è l'anno scorso, è 10 anni fa? Cosa c'è dentro? Sono ventenni, trentenni, sono donne che hanno fatto parti gemellari, sono donne che hanno fatto cesarei? Capito?

Come misurare il trauma?

La cosa che io direi a questo medico è: «Visto che dobbiamo parlare di percentuali, tu come fai a misurare il trauma di una donna che vive quello che ho vissuto io?» O quello che ha vissuto un'altra mia amica, per esempio, (lei ballerina, quindi super-fit, perfetta nel corpo e tutto quanto) che va in ospedale, le propongono l'induzione, spingono sull'induzione perché “ommioddio, siamo a 41 settimane, se no tu muori, il bambino muore, moriamo tutti” e finisce con un cesareo di urgenza perché, ovviamente, poi il battito cardiaco decelera. Immagina la paura che ha vissuto lei, di morire lei, di morire suo figlio, il fatto che lei non ha preso in braccio suo figlio per prima – l'ha preso sua madre, la madre di lei, la nonna. Se consideri il trauma suo, il trauma mio, il trauma di un’altra mia amica che ha partorito due mesi fa e le è stata tolta la bambina subito, dopo due minuti, perché c’era il liquido un po’ tinto – e non l’aveva inalato eh. Quella roba lì, cioè, tu hai tolto una bimba che è nata da un secondo alla madre, e l’hai attaccata all’ossigeno, fisicamente separata da sua madre, da una madre che partorisce per la prima volta, e le stai togliendo la bambina subito, senza spiegare, senza darle opzioni, senza dire niente. Quella roba lì come la misuri? Come fai? Non puoi. Anche se ci fosse una statistica – che non credo – non c’è un modo di dare una misura di quella roba lì, e solo perché non è misurata non vuol dire che non esiste. Esiste!

A me i numeri orientano molto, l’ho già detto. Ti faccio un altro esempio per capire, perché io diciamo che ho bisogno di esempi pratici per capire i numeri. A me volare fa paura, però l'altro giorno, prima di venire qua, visto che dovevo salire su un aereo, mi sono detta: «Ok, adesso guardo quanti voli passeggeri si alzano al giorno e quanti si schiantano», e la sproporzione è incredibile. Quindi a me quel numero lì mi orienta e mi fa pensare che sia ragionevole che io prenda l'aereo, però non è che sposta il mio sentire. Io mi cago addosso lo stesso, cioè sto male, parte l'aereo e sto male lo stesso, poi mi continuo a dire "Sì, ma si schiantano pochissimo”, però ho paura lo stesso. Quindi la mia risposta è ci sta: bisogna indagare, bisogna guardare i numeri, assolutamente, bisogna saperli leggere. Non bisogna prendere informazioni né dal medico né da internet, da nessuna parte, non si deve prenderle e accettare che siano così. 

Devi formarti, sapere cosa stai leggendo e cosa stai capendo, e decidere tu. Non decidono gli altri, decidi tu. Decidi quello che ti pare, ma decidi tu. 

E poi a me quello che ha spostato il sentire non sono stati tanto i numeri, non la matematica, ma è quella cosa che ti dicevo prima. Cioè, da una parte io ho un mondo che funziona in un modo e la forbice del trauma è ampia, ma succedono cose terribili e non vedo nessuna donna che esce dall'ospedale, ma anche da un parto a casa con l'ostetrica, empowered, che le cambia la vita, che ha capito 2000 cose. Io non non ho mai visto quella roba lì. E poi di fronte ho un mondo che funziona tutto in un'altra maniera, dove invece accade che ti cambia la vita indipendentemente da come va il parto. E, di nuovo, non perché non è doloroso, capito? Quindi a me non sposta il 93% o il 7%. A me quello che ha spostato è: io voglio andare là perché là sono tutte contente, anche quando c'è un outcome che potremmo definire negativo. Anche nei casi più difficili, anche quando c'è un bambino che non nasce vivo. Ovviamente non è che non sei triste (se tuo figlio non nasce vivo!), però la maniera di queste donne – molto poche tra l’altro – di come le ho viste affrontare quella situazione, rispetto a come invece ho visto quello che ha vissuto una mia amica, che purtroppo ha partorito a 21 settimane in ospedale, e quello che le è successo, quello che le è stato detto, com’è stata affrontata quella roba lì. Ecco, no, non mi interessa, io vado di là. Ehm, spero di averti risposto!

E se succede qualcosa? Ogni scelta ha i suoi rischi

[Anna] – Allora, è un tema molto complesso.

[Valentina] – Sono d’accordo!

[Anna] – E per certi versi controverso. Perché io non riesco ancora…e io e te Valentina ci parliamo da tanto per preparare questo incontro! Al di là di essermi confrontata con un ginecologo, informarmi anch'io sul Free Birth eccetera, continuo ad avere in testa non tanto il dato percentuale, ma il fatto che – e qua vado di pancia, eh, vado veramente di pancia – se io partorisco da sola, perché giustamente ho avuto un'esperienza brutta in ospedale, mi han trattato male, non voglio più rivivere quella cosa lì, vado verso il Free Birth e se succede qualcosa? Qualcosa che non riesco a gestire perché non ho le competenze, non ho intorno a me il personale medico e so che mio figlio avrebbe potuto sopravvivere, se invece ci fosse stato, come posso continuare a vivere il resto dei miei giorni serena? E te la faccio questa domanda così perché sono domande e riflessioni che mi hanno condiviso in tanti. Come puoi convivere con, posso dire, un “senso di colpa”?

[Valentina] – Certo, sì, sì. Questo qua è il centro di tutto, no? 

Io ho imparato questo: che non è vero che l'ospedale è più sicuro e non è vero che casa tua è più sicura. Ogni posto che tu scegli, per ogni tua gravidanza, per il bambino che si presenta podalico, per il fatto che sei incinta di gemelli, che stai facendo un VBAC, ogni situazione presenta il suo set di rischi. Cioè non è vero che faccio Free Birth a casa e va tutto bene. Non è vero, ci sono rischi da tutte e due le parti. Sta a te come donna decidere “che cos'è più rischio per me”.

E questo è un lavoro che io ho fatto perché quando mi sono seduta e ho cominciato a dire «Ok, apriamo questa possibilità di fronte a me», la domanda è stata «E se succede qualcosa?». Il lavoro che io ho fatto e che faccio con le donne che vogliono fare coaching con me è: sediamoci e chiariamoci, non teniamo questa domanda un po' nell'iperuranio del se succede qualcosa. Qualcosa cosa? Facciamo un elenco – e questo ho fatto io; un elenco scritto delle cose di cui ho paura, che non so, che temo. E guardo, ricerco, chiedo, io mi sono consultata anche con delle ostetriche, eh, perché comunque di nuovo questa per me non è un'ideologia. Io non vengo da quel mondo lì, non non ho niente da vendere a nessuno, come dire, io lo propongo a tutti perché l’ho fatto e mi sembra la cosa più bella del mondo. Ma io non vengo da lì, io arrivavo dal mondo medico. Quindi sono cose che io ho capito e c’ho dovuto lavorare io. 

Quello che io ho imparato è che ci sono una serie di cose che, se accadono a casa, o tu o il bambino o entrambi, morite. Questo è sicuro. Ok? Con un prolasso del cordone ombelicale muori. Punto. Altre cose che in ospedale vengono gestite come emergenze non sono emergenze e ci sono tutta una serie di cose che puoi provare a gestire a casa, ed eventualmente trasferire in ospedale. Per me, per la mia storia, per quello che io ho vissuto, io ci convivo. Non so come mi sentirei se mio figlio morisse perché c’è stato un prolasso del cordone ombelicale o perché c'è una distocia che io non so gestire. Mi sento in colpa? Eh beh, certo. Però io preferisco prendermi quel piccolissimo rischio lì, perché è piccolissimo, che accada una cosa che io non so e non posso gestire, piuttosto che andare in ospedale dove so che mi viene fatto del male, sicuramente. A meno che non abbia la fortuna di ricadere in una di quelle finestrelle piccolissime per cui: partorisco in fretta, non ho certi valori, non ho certe fattori di rischio, non ho questo, non ho quello, non ho una certa età, il bambino non mi si presenta in un certo modo, partorisco e non mi succede niente o mi succede molto poco, capito? Ci rifletto costantemente su queste cose qua e ho pensato che dire una cosa del genere forse, anzi sicuramente, risulta indelicata. 

Di sicuro tantissime donne mi direbbero “io ho partorito in ospedale, è andata bene”, ma quando cominci a grattare sotto la superficie di questa affermazione, c’è sempre sotto qualcosa. 

Perché ad esempio, la mia amica a cui è stata tolta la figlia perché aveva il liquido tinto, anche lei mi ha detto che il parto è andato bene, per lei non era successo niente. Quando cominci un pochino a grattare, invece, ti dice «Beh, però, in effetti, caspita, se avessi saputo un pochino meglio la situazione».

«Mi fido del mio corpo»

[Valentina] – Quando io stavo dall'altra parte [nell’ottica medicalizzata del parto, NdR], avevo imparato che capisci di essere in travaglio attivo perché hai le contrazioni sempre più forti, abbastanza regolari e, soprattutto, sempre dello stesso livello di intensità, o di più. Se decrescono vuol dire che sta succedendo qualcosa, che il travaglio sta andando in stallo. Io però non partorisco così. Il parto di Levante è andato più o meno così, però non fa fede. Quelli di Libero e di Sole, ecco, lì, le mie contrazioni non sono state così. Io ho delle contrazioni a bomba, poi ne ho un paio tranquille: ho una contrazione a un certo punto, ne ho una dopo un minuto, una dopo 6 minuti. Una cosa così in ospedale verrebbe interpretata in un certo modo. 

Io mi fido del mio istinto, mi fido di quello che sento, mi fido che io e mio figlio siamo una cosa sola, mi fido che quello che sta accadendo è ok perché l'ho visto succedere, perché è successo a me. 

Non sto lì a dirmi “però questa contrazione mi è arrivata troppo presto, mi è arrivata troppo tardi”. Ti ho risposto?

[Anna] –  È che ogni tua frase penso che meriterebbe poi un altro approfondimento. Non so se abbiamo i tempi tecnici, però vorrei andare a fondo su un altro aspetto. Poi vorrei anche sapere come sono nati gli altri due effettivamente…

[Valentina] – Però, scusami se ti interrompo, ci tengo a sottolineare una roba, perché ho girato un pochino su Instagram il mondo – non del Free Birth italiano, che mi sembra di capire che non esiste (senza voler offendere nessuno) – del parto in casa. E mi sembra che ci sia un po’ questa cosa del “no ma va tutto bene, è tutto bello”. No. Non è questo! 

Se tu sei una donna adulta, devi documentarti, devi capire come funziona sta roba e poi scegli tu. Vuoi scegliere l'ospedale? Scegli l'ospedale. Vuoi partorire in una foresta? Partorisci in una foresta. Fai te. Io so di storie di Free Birth, una mi sembra proprio in Italia ha partorito in un lago, io non lo farei mai. Ma non giudico la sua esperienza perché “fai tu”, capito? Il che non è dirsi “va tutto bene in a casa e va tutto male in ospedale”.

Spacchettare le paure: prepararsi al Free Birth in Arabia Saudita

[Anna] – Torniamo alla tua storia perché eravamo rimaste che “ok, consapevolezza, non voglio quella cosa lì, vado verso la direzione del Free Birth.

[Valentina] – Ah, già, perché non siamo neanche ancora a Libero!

[Anna] – Eh no, sì, ma tranquilla, che adesso ci arriviamo, nel senso che apriamo questo pacchetto delle paure, le analizziamo una a una. Però raccontami adesso com'è andata, cioè come l'hai vissuta?

[Valentina] – E io mi sono guardata il mio set di di paura preciso. Io ero ossessionata dalla distocia, ossessionata da sta cosa che potesse succedermi quello. A tante altre cose, per esempio, non c'ho neanche pensato, tipo, di nuovo (perché l'ho detto prima) il prolasso del cordone ombelicale, non lo so perché, ma l’emorragia non era una roba che mi toccava. Sono tutte cose che ho guardato, ma ho guardato di più quello che io sentivo. Non ma non so neanche perché, perché non è che ci sia una storia nella mia famiglia. Mi sono analizzata in particolare molto bene le cose che io temevo di più. 

Ho parlato con un’ostetrica qua di Milano, super carina e simpatica Roberta. Perché, in tutto questo, noi ci siamo trasferiti in Arabia Saudita, dove il parto a casa è illegale. Eh, e io ero in un campus universitario e il primo ospedale con sangue, terapia intensiva e quant'altro era a un'ora e venti da dov'ero io. E io le facevo «Roberta, ma se io ho bisogno di qualcosa, cosa faccio in Arabia Saudita?» e mi ricordo Roberta che mi fa «Sì, vabbè, Vale, ma dai, non è che adesso tutte muoiono dissanguate, ma vai tranquilla, cioè se questa è la tua unica opzione, dai, vai tranquilla». Avevo deciso che non sarei andata in ospedale, però avevo paura di questa cosa, di farlo a casa da sola e mi sentivo con le spalle al muro perché ero in un posto dove le ostetriche non ci sono. Se io fossi stata in Italia avrei 100% partorito a casa con un'ostetrica. Per un sacco di tempo, fino alle mie 32 settimane, io di base avevo scelto il Free Birth perché non avevo un'altra opzione, quindi non l'avevo scelto, mi c'ero ritrovata. Poi stavo cercando di, come dire, parare tutti i colpi, imparare, fare, per cercare di diminuire il mio livello di paura, ma se avessi avuto un'ostetrica avrei scelto quella, sicuro. 

A un certo punto ho parlato con un’altra ragazza, di Dubai, che anche lei ha fatto Free Birth e lavora in banca. Facciamo questa chiamata perché io dovevo capire praticamente cosa fare: io partorisco in casa questo bambino, ma cosa devo fare per registrarlo? E siccome a Dubai è anche illegale, ho parlato con lei e, insomma, prima di parlare delle praticità le ho esposto un po’ tutte le mie paure, i miei dubbi, chiedendole «Ma come faccio a sapere se c’è qualcosa che non va?».

E lei mi ha detto questa cosa che mi ha colpito un sacco: «Tu e il bambino siete una cosa sola». 

Se tu o il bambino avete qualcosa che non va, lo senti subito. Come tu sai che stai male, magari non sai quanta febbre hai, ma lo sai che hai la febbre. E sta cosa lo so che è semplicissima, e uno potrebbe dire, "eh, ma allora non è vero, perché ci sono delle patologie che si presentano…". Però, quando me l'ha detta, mi ha risuonato talmente subito come vera che ho detto "ma cioè sì, ma che bello, ma hai ragione". 

Consapevolezza femminista, responsabilità e scelta

[Valentina] – E poi mi ha fatto tutto questo discorso un po' femminista, ma io sono femminista e quindi ci sta:

«Noi, come donne, nasciamo e ci dicono sempre cosa dobbiamo fare, sempre»

Per la società devi apparire in un certo modo, devi essere magra in un certo modo, devi essere giovane in un certo modo, ti devi vestire in un certo modo. Magari non è che te lo dicono, ma tu lo sai che lo devi fare, perché se sei un po' diversa, perché se non rispetti certi parametri, poi la tua vita va in un altro modo, no? Lei mi ha fatto questo discorso, appunto, rispetto a come a noi donne viene sempre un po' detto cosa dobbiamo fare e poi mi ha detto «Tu adesso hai la possibilità di scegliere, tu, di prenderti la responsabilità, tu». E quando ho sentito questa cosa qui ho detto «Eh, ma io la voglio, io la voglio, voglio essere io a decidere, voglio essere preparata». Diciamo che quel suo discorso lì ha fatto mettere tutti gli ingranaggi insieme. Perché ho detto sì, voglio essere una donna adulta e scegliere per me. Non voglio più che mi venga detto che cosa devo fare, da che parte devo andare, perché sennò “Ommioddio, cosa succede al bambino? Se succede qualcosa?”.

Poi una delle cose “tecniche” che lei mi aveva detto, rispetto a come prepararsi in maniera tale da non finire in galera, è: presentati ogni tot dal tuo ginecologo, perché ci deve essere una traccia che tu sei andata. Poi “fai finta che hai partorito per sbaglio”, però se tu non ti sei mai fatta vedere, si mangiano la foglia che non volevi andare. Quindi io a 32 settimane vado da questa ginecologa super carina, super simpatica, mi fa tutte le visite che deve fare e mi fa «Vabbè, poi il bambino è podalico, ma insomma non ti preoccupare, sei a 32 settimane». Lei era tranquillissima, e anch’io le faccio «Sì, vabbè, cioè anche se è podalico, pazienza, lo partorisco podalico». E lei mi fa «No, facciamo un’inversione cefalica, non ti preoccupare». E io non sapevo cos'era un'inversione cefalica. Tanto dentro di me sapevo che non è che sarei andata lì, quindi dico, vabbè, boh, ok. Vado a casa e mi ricerco un po' inversione cefalica, mi leggo un po' di articoli, vedo un po' di cose e mi rendo conto di che cos'è. Tu hai presente che cos'è l'inversione cefalica?

[Anna] –  Io l'ho fatta, sì. 

[Valentina] – Ecco, com’è andata?

[Anna] – Ma no, non è il momento. Un giorno racconterò la mia storia.

[Valentina] – Ok. Io vedendo i video di com'è fatta, vedendo il male che fa, vedendo i rischi che ha, io ho detto «Ma questa qua me l'ha detto con questa leggerezza “eh facciamo un'inversione cefalica”, per una roba del genere». Ma no, basta. Quello lì è stato proprio l'ultimo chiodo sulla bara che m'ha fatto dire "Non mi vedrete mai più". Cioè, tu non mi puoi dire una roba del genere con sta leggerezza qua, non è ok. Io non voglio più far parte di questa roba qua, basta. E quello lì è stato il momento in cui io ho fatto uno shift completo e per me non è più stato “devo fare questa roba, cerco di prepararmi, ma incrociamo le dita”, bensì è diventato “io questa roba qua la voglio, basta”.

Il secondo parto, in casa: Libero

[Anna] – Quindi raccontami del giorno in cui quindi questo travaglio è partito e tu eri convintissima che per nessun motivo al mondo saresti andata in ospedale.

[Valentina] – Non era più una possibilità per me.

[Anna] – E quindi ti sei ritrovata al momento del travaglio, eri a casa?

[Valentina] – Allora, era il 7 dicembre, perché mio figlio è nato l'8. Io ho perso il tappo mucoso la mattina e ho avuto questo pensiero che mi è passato nella testa “mah, chissà, magari oggi partorisco". Mettiamo a letto Levante, gli do un bacino e penso "Magari questo è l'ultimo giorno che lui è figlio unico, cioè magari domani si sveglia, e ha un fratello". E Levante era malato, perché in Arabia Saudita, siccome fa caldo peggio di qua, c'è aria condizionata ovunque, quindi i bambini si ammalano ogni 2 secondi. Lui era intasatissimo e quindi continuava a chiamare mio marito indietro. Io ho iniziato ad avere delle contrazioni, ho detto "Va bene, ascolta, tu stai con Levante, tanto io sono tranquillissima, mi gonfio la piscina”, perché è una cosa che avevo anche capito nel primo parto con Levante, in cui avevo fatto un po' di travaglio in vasca – però le vasche dell'ospedale sono come le vasche di casa, nel senso sono dure, e a me quella roba lì mi aveva fatto mi aveva fatto malissimo, mi aveva dato veramente fastidio e quindi mi ero comprata una vasca, si chiama Birth pool in a Box, mi sembra.

[Anna] – Che è gonfiabile, no?

[Valentina] – Sì e poi è alta, è ovale, ti senti proprio protetta. Quindi ho detto “boh”, non lo so, non l’avevo mai fatto. In più, venendo da 72 ore con Levante, non è che mi aspettassi di partorire in 5, come ho fatto. Quindi, per non saper né leggere né scrivere ho detto: gonfio la vasca, la riempio, mi metto l'acqua con la mia cannuccia, i miei snack e poi vediamo. A un certo punto continuavo ad avere contrazioni, ma ero tranquilla, ero focalizzata, ero preparata. Con poche cose, eh, non è che devi fare chissà quali riflessioni filosofiche, solo dire "sono centrata, io da questa cosa non posso scappare, ci posso solo passare attraverso, devo stare lì". Questo qui era un po' il mio mantra e la storia finisce qui perché semplicemente ho fatto il travaglio. Fine. Nessuno mi ha parlato, nessuno mi ha controllato. Io non mi sono mai chiesta niente. Ero serena. Faceva sempre male? Porca miseria sì.

[Anna] – Esatto. Tu con il tema del dolore, che tanto l'avevi sofferto nel primo, come l’hai gestito? Non avevi paura di morire di dolore?

[Valentina] – No di morire no. 

[Anna] – No no aspetta, come modo di dire, ovviamente intendo un dolore così grande come l’avevi esperito…

[Valentina] – Allora, non ho avuto tempo di preoccuparmi del dolore perché stavo facendo il lavoro di decidere di fare quella roba lì. Quindi, onestamente, mi sono preparata per come affrontarlo, ma non ho avuto spazio per la paura, ok? Perché dovevo fare un salto talmente grande, che figurati! 

Ha fatto male, però con la testa l'ho gestito, cioè semplicemente con il fatto di essere lì presente

Una contrazione alla volta

Sono le solite cose che si dicono, però, essendo lì sola e tranquilla, potendo veramente applicare senza nessuno che mi diceva "scusa ma il battito di tuo figlio sta decelerando”. Essendo semplicemente in me stessa, mi ripetevo «una alla volta, adesso arriva, ma mi devo mantenere rilassata, devo mantenere la mascella rilassata, devo mantenere le mani rilassate, una contrazione alla volta». A un certo punto Luca è risbucato, verso proprio la fine. E lì mi è successa una cosa che sì, avevo sentito e avevo letto, ma non avendola vissuta è diverso. Io ero sdraiata così sulla piscina [con la schiena e i gomiti appoggiati ai bordi, NdR] per le contrazioni, e mi aspettavo la famosa “fase espulsiva”, cioè mi aspettavo che a un certo punto le contrazioni sarebbero mutate completamente, e avrei sentito le contrazioni espulsive. Mai vero! Quando non sei in ospedale, non funziona così.

Il mio corpo si è tipo “catapultato” in avanti, ma da solo eh, cioè io non ho pensato a niente, non ho fatto niente. Mi sono ritrovata a carponi, così, ho avuto tre contrazioni e poi è nato Libero.

La contrazione iniziava normalmente, come le contrazioni del travaglio, ma finiva con una spinta. Io sapevo che questo si chiama fetal ejection reflex, che in italiano è “riflesso di eiezione fetale” [anche conosciuto come Riflesso di Ferguson, NdR]. In sostanza il tuo corpo lo spinge fuori da solo. Non è vero che devi spingere, onestamente. Io non l'ho dovuto fare. Ho sentito l'utero che cominciava a spingere. Una spinta e ho detto “ah”, ho riconosciuto quella sensazione inspiegabile quando senti che il bambino sta scendendo e senti le anche che ti si spaccano. Io ero terrorizzata, ma nessuno me l’aveva detta sta cosa, né io me la sono andata a cercare, quando è nato Levante. Invece, quando è successo con Libero, siccome io lo sapevo, ero tranquillissima. Cioè quella lì è la sensazione, e fine, non è niente né di brutto né di bello. 

«Tutto il mondo si è fermato»

In quel momento lì ho detto "Ok, secondo me ci siamo". Allora ho checkato io, mi sono io infilata due dita dentro, per vedere, e ho sentito la testa. Anche una mia amica mi aveva detto che aveva fatto questa cosa e sentire la testa le aveva dato tantissimo coraggio, così ho voluto provare anch’io: l’ho fatto, ho sentito la sua testa, oddio, ci siamo, contrazione uno, contrazione due, la testa era fuori e ho sentito la rotazione – che in ospedale non avevo assolutamente sentito. 

Ed è una roba pazzesca, perché tu senti tuo figlio vivo, dentro di te, che sta uscendo da te, “intrappolato” tra due mondi, il dentro e il fuori, mi viene la pelle d'oca. È una roba pazzesca. Pazzesca. 

Ho sentito questa rotazione, però, come dire, ero lì ma non ero lì, ero nel “cervello primitivo”, quindi non ho avuto la ratio di dire “ah sì, sta succedendo questo”. Ho avuto l’istinto di dire “Luca, non toccarlo”; perché pensavo fosse lui che tipo lo stava prendendo, ma Luca era davanti a me, quindi era il bambino che stava uscendo da dietro. Alla terza contrazione, esce Libero, io lo prendo e basta, è finita. E, veramente, mi viene la pelle d'oca, mi commuovo a dirlo, io che sono una persona ansiosa e ho fatto filosofia (e non ha aiutato questa cosa), penso a ottocentomila milioni di cose al momento, al secondo, lì tutto il mondo si è fermato. Tutto il mondo si è fermato, ma per ore poi, tra l'altro, ed eravamo io e Libero. Sì, okay, in realtà c’era anche Luca.

[Anna] – Povero papà! [Sorridono, NdR]

[Valentina] – Povero papà! No no, poi mio marito è veramente di una delicatezza incredibile, non c’è bisogno di dirgli niente. Ci ha lasciato lì, a noi due, nel nostro cocoon, capito? Io avevo Libero e lo guardavo in faccia e pensavo «Ma questa è sempre stata la tua faccia!», e adesso la vedo, in questo silenzio, di notte, noi due, da soli. È stata una roba veramente magica. 

L'ho preso in braccio, siamo stati lì un po' così nella piscina tranquilli e poi ho cominciato a sentire delle contrazioni, a sentirmi super infastidita, che sapevo che era il momento in cui doveva nascere la placenta. Questa è un’altra cosa di cui in ospedale non né mi è stato detto niente, né ne ho avuto coscienza. La mia placenta dov'è finita? Quando è stata tagliata? Boh! Chi? Quando è stato tagliato il cordone? Boh! Eh, in questo caso mi sono alzata, sono uscita dalla piscina e ho fatto una leggera trazione, perché quando lo fai tu non ti fa male, ed è letteralmente come togliere un tampax. Io non so perché, ma mi viene più naturale far così che magari tossire o spingere, non lo so, mi fa strano. Preferisco fare una leggera trazione. Ho fatto così, è uscita la placenta, l'ho messa nella nostra insalatiera e poi l’abbiamo buttata. Luca la voleva tenere perché lui è ingegnere e, insomma, è frugale e gli ho detto “magari no, la buttiamo”. E basta, Libero era nato e siamo stati sul divano per 8 ore e poi siamo dovuti andare in ospedale per forza, perché in realtà penso che sarà poi la tua prossima domanda, o no? Non so. O mi fermo?

Il terzo parto, in casa: Sole

[Anna] – Allora, Valentina, il problema è che siamo dal vivo e stiamo già parlando da un sacco, e abbiamo un incontro subito dopo il nostro che deve partire. Quindi, se sei d'accordo, il capitolo Sole che è qui, tra l'altro, non lontano da noi…

[Valentina] –  Sta dormendo!

[Anna] – Sì, sta ancora dormendo. Incredibile! Se vuoi, raccontami un aspetto di questa terza nascita, e poi ti faccio la domanda conclusiva sulla tua storia.

[Valentina] – Guarda, l'unica differenza è che con Libero ho fatto tutto un lavoro di domande, che ora non faccio più, perché so dove sto e cosa voglio. Questo ha lasciato spazio a tutta la paura del mondo. Cioè il tema della mia gravidanza con Sole è stato: io ho una paura terribile del dolore. Ho paura che duri tanto, ho paura di… non di non farcela, perché ce la fai, però avevo veramente paura del dolore e devo dire che però anche quella lì è stata un'occasione semplicemente per lavorare su di me, per guardare perché ho così paura. Per guardare un sacco di cose di me stessa, semplicemente per capire meglio come affrontare. Perché poi appunto, io una figlia la volevo, altri figli ne voglio. 

È stata semplicemente un'occasione per capire veramente solo per capire di più me stessa, per guardarmi di più. 

Mi ha anche reso molto più umile, perché comunque, dopo Libero, l’aver fatto una cosa così grossa, così diversa, così nuova – anche nel giro delle persone che conosco – forse mi aveva fatto anche un po' troppo “figa”, non so come dire. E invece, passare 9 mesi con la paura e dirmi "ma è il mio terzo parto". Non era una paura di “succede qualcosa”, ma proprio solo paura specificatamente del dolore. Questo mi ha reso molto più umile perché mi ha fatto anche guardare con tenerezza, non so come dire. E poi il parto di Sole è stato tranquillissimo anche lì di nuovo c’era il dubbio “ma sto partorendo, non sto partorendo, ma non lo so”. Poi lei è nata in 50 minuti, m'ha fatto questa grazia, questo regalo meraviglioso, infatti è nata, l'ho presa, ho detto “amore”!

[Anna] – È già qua!

[Valentina] – Esatto, le ho detto grazie.

«È bellissimo prendersi la responsabilità di noi stesse»

[Anna] –  Valentina, ascoltando questa tua storia così intensa sono emerse tante domande, riflessioni che purtroppo oggi non abbiamo il tempo di approfondire, ma spero che ci sarà modo, ma una su tutte riguarda il rapporto che ogni ogni donna ha con il proprio corpo, con il rischio, con l'autonomia, con l'autodeterminazione e anche con la fiducia nel sistema sanitario. Se potessi cambiare un elemento solo, dimmene uno, affinché le donne possano sentirsi ascoltate nelle loro esperienze di parto. Cosa sceglieresti?

[Valentina] – Per essere più ascoltate ti direi: «Smettete di farvi dire dagli altri che cosa fare. Scegliete quello che volete». Non dovete scegliere il Free Birth, non dovete scegliere niente che qualcun altro vi dica. Scegliete voi, non solo nel parto, in tutto. Prendetevi la responsabilità. Smettete, anzi smettiamo, smettiamo noi, perché adesso non è che io non lo faccio, lo faccio tutti i giorni, magari in altri contesti, ma smettiamo di dire “non mi è stato detto, non avevo capito, mi è non mi è stata data l'informazione”. Siamo donne adulte, siamo responsabili. È bellissimo prendersi la responsabilità di noi stesse, del nostro corpo, della nostra vita. Facciamolo. Scegliamo noi. Scegliamo noi. Basta.

[Anna] – Grazie!

[Valentina] – Grazie a te! 

[Anna] – Grazie. E grazie a tutti voi che ci avete ascoltato!

Credits

Grembo, racconti di pancia” è un podcast di Anna Acquistapace ed è sostenuto da Nidi Fioriti, un'iniziativa che coltiva l’alleanza tra scuola, famiglia e territorio, a partire dai più piccoli. 

Musiche © Pablo Sepulveda Godoy

Produzione video © Andrea Sanna

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