Grembo Ep. 29

Grembo: il papà rampante con Andrea Loreni

Vi do il benvenuto su Grembo, racconti di pancia (ep. 29)

Ciao, io sono Anna Acquistapace e vi do il benvenuto su Grembo

In questo podcast vi accompagnerò attraverso storie di donne e uomini che condivideranno il loro “racconto di pancia”. Lo farò mettendo da parte i preconcetti per raccontare una genitorialità diversa, senza filtri, senza giudizi

Il grembo è il luogo da cui tutti noi veniamo, il nostro porto sicuro, ma è anche la nostra finestra sul mondo. 

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Introduzione

Andrea è un papà che cammina su un filo. E no, non è solo un modo di dire! Andrea Loreni di mestiere fa il funambolo. Ha percorso chilometri nel vuoto, sospeso su delle funi, tra i templi giapponesi o i grattacieli di Milano. Eppure se gli chiedi quale sia stata l'esperienza più intensa della sua vita, lui ti risponde «la nascita di mia figlia». Per questo ho voluto incontrarlo e chiedergli di raccontarmi il suo percorso di paternità. 

Gli ho chiesto che cosa abbia significato essere al fianco di sua moglie Claudia, durante il travaglio e il parto. Andrea si è commosso nel rivivere il momento in cui la piccola Frida è venuta al mondo. E di fronte alla classica domanda, «Chi taglia il cordone ombelicale?», lui e sua moglie hanno risposto con fermezza: «Nessuno! Cordone e placenta vengono a casa con la nostra bambina». Una scelta consapevole nata da una profonda ricerca e dalla volontà di vivere quel passaggio con pienezza. 

Ma la nostra conversazione non si è fermata lì. Ho voluto affrontare anche un tema spesso evitato e un po' tabù, la morte. Un aspetto che molti di noi prendono in considerazione proprio quando diventano mamma e papà. Perché essere genitori significa anche questo, confrontarsi con la fragilità della vita, con il bisogno di proteggerla e allo stesso tempo accettarne i limiti. Andrea è un papà funambolo, sempre in equilibrio, e mi auguro che il suo racconto vi arrivi come un invito a vivere ogni passo con consapevolezza e presenza.

Intervista ad Andrea Loreni

[Anna] – Ciao Andrea, benvenuto al microfono di Grembo, grazie per essere qui! Ti chiedo di presentarti, dirmi chi sei, quanti anni hai, dove vivi, di che cosa ti occupi e da chi è composta la tua famiglia.

[Andrea] – Un sacco di domande, spero di ricordarmele! Allora, io sono Andrea Loreni e, di lavoro, faccio il funambolo, che ha però delle valenze sul “sono” anche un funambolo, non è solo un “faccio”! E faccio anche una serie di momenti di formazione, inspirational speaking, formazioni soprattutto nelle aziende, ma non solo, da qualche tempo mi sto aprendo a dei laboratori per tutti, legati molto al respiro soprattutto, e alla meditazione. Sono papà di Frida, la mia bimba che ha dieci anni, e mia moglie Claudia ha 49 anni, ne ha appena compiuti 50. 

[Anna] – Auguri allora!

[Andrea] – Grazie, grazie!

[Anna] – E dove vivi? 

[Andrea] – Vivo a Pecetto Torinese, vicino a Torino.

[Anna] – Andrea, io ti ho conosciuto perché ho ascoltato la tua storia in un'intervista dove a un certo punto l'intervistatore ti chiedeva «qual è stata l'esperienza più incredibile della tua vita?» e, per il mestiere che fai, uno si aspetta magari una traversata chilometrica sopra dei templi giapponesi o City Life Milano, dove hai fatto un'impresa incredibile. In realtà tu hai dato una risposta particolare che, se vuoi dirmi adesso...

[Andrea] – Certo, il momento più pazzesco della mia vita, più incredibile, non è stato una di queste traversate – che comunque occupano un posto interessante, diciamo, nella top 10 – però è stato assistere al parto di mia moglie e quindi alla nascita di mia figlia, Frida.

L’idea di diventare papà

[Anna] – Infatti, è questo il motivo per cui oggi siamo qui. Eccoci qua! E quindi parleremo a fondo di questa tua storia di paternità. Però ti chiederei di partire dall'inizio e volevo chiederti se nei tuoi sogni di bambino c'era l'idea che un giorno saresti diventato un papà? 

[Andrea] – No, no! Non c’era neanche l’idea che sarei diventato un funambolo (pensavo mi domandassi di quello!). E assolutamente non c'era l’idea di una paternità. Era una delle poche cose che credevo di avere chiare: che non sarei diventato un papà, che non avrei avuto figli. Anzi, forse è stata una delle prime cose che ho detto a mia moglie quando la situazione è diventata un po' più seria, a livello di coinvolgimento emotivo; una delle cose a cui ho messo, come dire, le mani avanti, uno dei punti saldi. Ci sono state forse due o tre cose nella vita a cui ho detto «no, questo proprio no»: una è stata il servizio civile, l’altra i figli. E, invece, sono state proprio tra le esperienze più belle della mia vita; fare il servizio civile in un centro diurno e avere una bimba.

[Anna] – Alla fine hai fatto entrambe!

[Andrea] – Ho fatto entrambe completamente stravolgendo le idee che avevo in proposito, questa è stata la parte interessante.

[Anna] – E raccontami di come sei riuscito a stravolgerle? Intanto, era un'idea di Claudia? Vi siete avvicinati insieme all’idea di genitorialità? Come è andata?

[Andrea] – Non mi ha “convinto”, non ha mai messo in campo questa “strategia” [neanche in altri ambiti, NdR]. Come, ad esempio, lei era vegetariana da quando aveva 16 anni, io lo sono diventato molto dopo. In casa non mi ha mai detto niente: mi cucinavo la mia carne, mangiavo la mia carne e, poi, sono diventato vegetariano. Quindi non ha mai cercato di convincermi, anche perché all'inizio, come dire, “ha accettato questa condizione”, un po' perché neanche lei aveva probabilmente quest’idea, a quel tempo. Ormai siamo sposati dal 2012, ma siamo fidanzati dal 2002 o 2003…

[Anna] – Una vita insieme!

[Andrea] – Sì. Probabilmente al tempo neanche lei aveva chiara questa idea di “figlio o non figlio”. A un certo punto è diventata per lei urgente e me l'ha sottoposta o proposta come una sua urgenza. Naturalmente mi sono messo ad ascoltare quello che diceva lei – anche se in maniera all'inizio burbera, che è un po' un modo mio di fare, però poi ascolto – e piano piano mi sono messo a riflettere sulla questione, e dire di “no” a un figlio a una donna (ma non solo) in particolare è un po’ come “tagliarle una gamba”, secondo me, nel senso di toglierle una potenzialità della vita.

Questa è stata un po' la risposta più razionale, anche se ha delle parti ovviamente molto del sentire ed emotive. Però a un certo punto ho trasformato il mio approccio e sono stato disponibile, con gioia, a provare ad avere un bambino, perché comunque all'inizio era un provare. E quindi è stato questo il passaggio, lo stare a fianco a questa necessità della vita, in generale, che si manifestava in Claudia, nel particolare.

Paura, genitorialità e vita che cambia

[Anna] – E quindi è stato anche progressivo, insomma.

[Andrea] – Sì, sì, assolutamente progressivo. Anzi, ne parlavamo l'altro giorno che siamo andati a fare una camminata in montagna e siamo passati in un posto dove eravamo stati in vacanza, proprio mentre stava per nascere, mentre Frida era nella pancia di Claudia, era verso la fine della gravidanza. E mi ha ricordato Claudia – me lo ricordavo anch'io – che era un posto in cui avevamo litigato tantissimo, e uno dei temi era proprio il fatto che io ero molto spaventato dall'idea di non riuscire più a fare delle cose, a “causa” di Frida, e una delle cose era la paura di non avere più delle possibilità dopo, e invece ci sono.

[Anna] – Ed è una paura molto comune, nel senso che è una domanda che effettivamente i genitori hanno, soprattutto se pensi che i figli li facciamo sempre più in là con l'età, a un'età in cui magari hai la carriera avviata e dici “cavoli ho fatto tutta questa fatica, e adesso mi devo interrompere”. Qua penso soprattutto alle donne, perché poi l'interruzione è soprattutto la loro. Però come hai superato questa paura intanto? 

[Andrea] – L'ho superata, nel senso che quando ero dentro il processo l’avevo accettata, quindi me la sono goduta, la paura, anche a costo di un po', appunto, di litigi con Claudia. Però una cosa che mi ha insegnato il funambolismo è stare con le cose che ci sono. Sono stato in maniera più o meno spigolosa con la paura e ci sono passato attraverso.

La cosa che direi ai genitori che hanno paura è che: ragazzi, se fate un figlio la vita cambia, ma è quello il punto! Se non volete che cambi la vita, non fateli, perché è una roba che cambia la vita, non c'è niente da fare, è proprio il punto. Infatti è stato un cambiamento, poi da una parte neanche così drammatico, nel senso che ho continuato a fare tante cose come facevo prima, e quelle a cui ho, se vogliamo dire, rinunciato, in verità ci ho rinunciato per farne altre, molto più interessanti – il tempo con la figlia e con la moglie – quindi, assolutamente, sto molto meglio adesso, se dovessi dirlo.

[Anna] – A proposito del passaggio e delle paure che stiamo affrontando, c'è un'immagine che può essere ricondotta al funambolismo che mi piacerebbe evocare. Quando cammini su una corda fai un passaggio da un punto a un altro e, passo dopo passo, tu stai facendo questo attraversamento e capita a volte – capiterà, non so, mentre sei sulla corda – di pensare a quello che hai dietro di te, quindi di guardarsi indietro anche, diciamo, idealmente. La paternità per te è stata uno spartiacque, giusto? Me l’hai già raccontato un po’. È un qualcosa che ha segnato, come abbiamo detto, un prima e un dopo. Questa cosa, come l'hai vissuta?

[Andrea] – Devo dire che l'ho vissuta bene, io sono molto contento di essere diventato padre. Dopo, come ti dicevo, secondo me si sono addensate delle cose, si sono focalizzati dei punti interessanti, più importanti. E si è anche intensificata una sorta di ricerca personale, perché di fronte a un figlio ti fai molte più domande: ti guardi molto di più, ti rifletti nel figlio molto di più, quindi vai molto più a fondo nel conoscerti.

E, per il resto, da una parte c'è questo spartiacque e, dall'altra, c'è comunque, secondo me, una continuità che non viene interrotta. È vero che ho appena detto che ti cambia la vita e confermo, però in verità la vita è sempre la stessa, si trasforma, non è che venga interrotta. Almeno nel mio caso non ho dovuto né cambiare, per esempio, mestiere, né cambiare città, né cambiare delle cose così drastiche; sono stati dei cambiamenti più esistenziali, più sottili, più del cuore, ma super super interessanti.

Immaginare un parto con i delfini

[Anna] – E il periodo dell’attesa come l'avete vissuto? Come vi stavate preparando poi all'arrivo della vostra Frida? Vi immaginavate, appunto, un parto, una situazione particolare? 

[Andrea] – Beh, sì, allora, sull'immagine del parto è andata così; a un certo punto, un dottore da cui andavo mi dice «il parto, il top del parto è in acqua con i delfini». Ma come in acqua? Un parto con i delfini? Questa roba qua è interessante! Qualsiasi roba che sia altra mi ha sempre interessato. Allora sono arrivato a casa e ho detto «guarda Claudia, va bene, però il parto con i delfini, in acqua!», e lei mi fa «ma tu sei scemo!?». Però siamo partiti da lì, e abbiamo iniziato a cercare altre vie. 

[Anna] – Ma perché con i delfini?

[Andrea] – Beh, sembra che i delfini abbiano una natura molto sensibile – da quel che diceva questa teoria – per cui in acqua con i delfini c'è un contatto molto vicino, molto immediato, molto profondo con questa naturalità, con questa istintualità. L'elemento dell’acqua ovviamente è l'elemento del parto. Il parto in acqua è già molto più sdoganato che il parto con i delfini. Tra l'altro in Italia non si può più fare coi delfini, per tutela dei delfini.

[Anna] – Certo, sono degli animali, chiaro, non si possono sfruttare!

[Andrea] – C'era forse un parco acquatico dove era stato fatto qualche volta. Si può fare in Messico. C'è però una controindicazione, che abbiamo scoperto dopo, che riguarda il viaggio. Il viaggio di un bambino nella pancia è comunque un momento molto complicato da scegliere, ma non tanto per questioni di salute. Penso che tutta la questione della salute la tratteremo dopo.

[Anna] – Nel viaggio aereo, intendi proprio quando è nella pancia o anche da molto piccolo? 

[Andrea] – Anche da molto piccolo, cioè gli spostamenti così grandi hanno delle risonanze complesse sul sentire del bambino, che comunque non è partorito “a casa”: è messo in un ambiente nuovo, con una velocità di trasferimento ovviamente non umana. Perché ti sto dicendo tutte queste cose? Perché, ecco, partendo dai delfini poi siamo andati un po' in cerca di modi più nostri di partorire. Abbiamo incontrato le ostetriche di un ospedale di Torino, il Sant'Anna, che seguono il parto a casa. Allora da lì si è trasformato in un parto il più naturale possibile, che forse è fin più naturale a casa che con i delfini, no? In un certo senso i delfini sono la natura, proprio quella forte, però non è naturale, nel senso che non è fisiologico partorire con i delfini, è più naturale partorire a casa e quindi ci siamo mossi in quella direzione.

[Anna] – Stiamo parlando di dieci anni fa circa, giusto?

[Andrea] – Sì, dieci anni fa.

Le reazioni alla scelta del parto a casa

[Anna] – Confermami questa sensazione, non era così sdoganato il parto in casa dieci anni fa, vero?

[Andrea] –  No, no. 

[Anna] – E come hanno preso questa idea le persone intorno a te, la vostra famiglia, anche i medici che vi seguivano?

[Andrea] – Beh, allora, noi ci siamo fatti seguire dalle ostetriche dell'ospedale, quindi era tutto in quella direzione. E proprio quelle ostetriche avrebbero dovuto seguire il nostro parto a casa. I medici più tradizionali ovviamente non erano molto “favorevoli”, qua c'è un bel tema. Per quanto riguarda le persone vicino a noi, fortunatamente la mamma e il papà di Claudia sono super “ah, va bene!”, insomma accondiscendenti, gentili, accoglienti. Hanno comunque accolto la figlia vegetariana quando aveva 16 anni, e hanno accolto anche me in casa per un periodo, e sono abbastanza strano – per dire, ecco, che sono molto aperti.

Mia madre ha fatto un po' di storie, ma tutto sommato è stata una caposala del Pronto Soccorso e ha lavorato nella sanità, quindi ha anche presente certi aspetti della sanità. Dopodiché lei ha partorito in ospedale, perché era, figurati mia mamma, non per mia mamma in sé ma per il periodo (storico), si partoriva in ospedale.

[Anna] – Certamente, era un’altra storia.

[Andrea] – E, in generale, devo dire che forse ho fatto una “selezione” sui ricordi, giusto per ricordarmi almeno le persone curiose. Già siamo circondati di una serie di persone e di amici che sono, non dico, allineati con noi su tutto – perché poi diventa un altro tema complesso, come il vegetarianesimo o meno con gli amici. Perché qualsiasi roba che si diversifica è complicata da gestire, sempre di più nell’attualità in cui ogni diversità è vissuta. Ogni relazione con la diversità è semplicemente una lotta, una guerra. 

[Anna] – Una fatica. 

[Andrea] – Una minaccia all’altro. Quindi io faccio diversamente e stai minacciando il mio modo di fare. No, però, possiamo parlarne, no? È un’alternativa. E quindi siamo arrivati al parto a casa, tutto sommato poi sostenuti molto dalla famiglia.

[Anna] – Anche dalle ostetriche che vi dovevano seguire.

[Andrea] – Dalle ostetriche sicuramente, e da chi avevamo vicino.

La rottura delle acque e il consiglio di andare in ospedale

[Anna] – Quindi vi siete mossi in questa direzione, “vogliamo fare il parto in casa”. Ed è andata così?

[Andrea] – Eh, purtroppo no. Si sono rotte le acque la sera. Claudia al mattino si è accorta di avere un po’ di perdite, qualche goccia, allora abbiamo avvisato le ostetriche che hanno dei tempi abbastanza, standard, molto precisi. Dopo 24 ore dalla rottura delle acque, non era partito il travaglio e ci hanno consigliato di andare in ospedale a Savigliano, nel cuneese, che ci era stato segnalato come ospedale con un certo tipo di posizione verso il parto. Non è andata proprio così, ma lo approfondiremo…

[Anna] – Assolutamente, andiamo proprio a fondo su questo! Nel senso che c’è già un cambio di aspettative e di immagine, perché voi vi eravate fatti una certa idea di parto, a casa, in un certo contesto, e andare in ospedale è tutta un’altra storia.

[Andrea] – Sì. La cosa interessante è stata che comunque Claudia aveva ben chiaro che il parto a casa va bene, se fa per te. Claudia è andata in ospedale con la consapevolezza che comunque era una roba che le andava abbastanza bene, condividendo le procedure. Quindi, se dopo 24 ore dalla rottura delle acque non c’è stato travaglio, okay, con molta tranquillità è andata in ospedale. Per fortuna lei era molto tranquilla, questo era il punto. Ovviamente in un certo senso, anch’io, una volta che è stata presa la decisione non ci abbiamo pensato neanche un attimo a prolungare il parto a casa, anche perché le ostetriche non ci avrebbero seguito. Siamo andati là con una certa serenità e, per fortuna, con una certa preparazione data dalle ostetriche

Siamo arrivati e il travaglio non partiva, e naturalmente ci hanno proposto l’ossitocina. Fortunatamente, di nuovo, anche su questo, non eravamo così preparati. Per dire che si è preparati ma, su certe cose, veramente, non siamo mai abbastanza preparati. Perciò, per chi vuole partorire: preparatevi benissimo prima, perché poi il momento è critico e lì è difficilissimo prendere decisioni, se non le hai già prese prima. Infatti, per esempio, le ostetriche ci avevano consigliato di fare una lista (questo prima prima) – perché nel percorso del parto è previsto che magari finisci in ospedale per qualsiasi motivo, quindi «fate una lista di quello che volete prima e la consegnate subito all’ostetrica!».

[Anna] – Un desiderata delle cose che volevate voi. 

[Andrea] – Esatto! Te lo chiarisci prima, perché poi, lì, è più difficile. 

Ossitocina sì o no? La scelta informata nel parto

[Anna] – In questa lista immagino che non ci fosse l’idea dell’ossitocina, giusto?

[Andrea] – No, non l’avevamo proprio fatta la lista, ecco, questa è stata una nostra carenza, non l’avevamo fatta! E quando ci hanno consigliato l’ossitocina, noi sapevamo delle questioni diciamo complesse relative all’ossitocina, non è così immediato (sceglierla), non è sempre così “salutare” farla. Se si può evitare, meglio. Poi, vabbè, ovviamente ci sono casi particolari. Sai, io adesso sto facendo un percorso di respirazione olotropica, per diventare facilitatore di respirazione olotropica. E, in questo metodo di Grof, c’è una parte molto grande e super importante che riguarda il parto, e come si riflette il parto nella strutturazione della personalità, nella biografia di tutti. Il parto naturale e fisiologico ha delle funzioni, così per com’è fatto – la natura c’ha pensato bene a fare quella roba lì. 

Gli interventi sono leciti solo in caso di pericolo; tante volte non è così: tante volte vengono fatti per comodità, per sveltire, anche per accondiscendere a dei desideri di sicurezza dei genitori. Insomma, l’ossitocina per fortuna nel nostro caso non si è rivelata necessaria. Noi abbiamo detto di no alla prima proposta. C’era per fortuna lì un’ostetrica, interessante, che ci ha detto «ragazzi, potete rifiutare», perché anche solo i protocolli, se ci pensi, cambiano. Quindi fino a ieri, il protocollo prevedeva l’ossitocina – mi sembra – dopo 36 ore, mentre ieri l’han cambiata a 24, quindi se era sicuro ieri, insomma, state tranquilli.

La situazione di Claudia era tutta sotto controllo, stava benissimo, il feto, la bambina stava benissimo, quindi avevamo tutti gli strumenti e le condizioni per rinunciare. E non abbiamo accettato la prima proposta di ossitocina, però ci han consigliato di prendere l’olio di ricino. Da lì, com’è, come non è, mi mandano a casa, perché «tanto, figurati, partorirà con calma…»

[Anna] – Della serie “sarà lunghissima”!

[Andrea] – Non era partito il travaglio ed ero a Cuneo, quindi la casa era distante più di un’ora in macchina e ho detto «mmh, non lo so». Mi sono fermato a dormire in macchina. Dopo due o tre ore mi chiama Claudia e mi dice «corri subito su», bom. L’avevo lasciata tutta beata e tranquilla nel letto, e l’ho trovata per terra avvolta da un lenzuolo, che le era partito il travaglio. Allora, fortunatamente, ero lì vicino e sono riuscito a entrare in sala parto con lei. C’era la vasca da bagno, ma non era un parto in acqua…

[Anna] – Era prevista una parte di travaglio in acqua?

[Andrea] – Sì. E quindi son stato con lei fino a che non è uscita. 

Assistere al parto

[Anna] – Com’è stato, da papà – da futuro papà , di lì a poco – assistere al parto e vederla in quel momento lì di difficoltà? E di sofferenza, immagino, perché era faticoso?

[Andrea] – Sì sofferenza, no difficoltà. Perché la cosa che mi ha stupito è stata partecipare a quella roba che è la vita. Non c’è niente di più vita, di più naturale e fisiologico di un parto. E quindi vederla lì era proprio vederla partecipare alla Madre Terra, cioè una roba pazzesca.

[Anna] – È meraviglioso.

[Andrea] – Quindi fatica sì, perché si tribola, dolore e sofferenza ce ne sono stati, però del tutto irrilevante, no? Anche dopo ci sono stati un sacco di “meccanismi di sistemazione naturale” della questione, per cui Claudia anche lo ricorda come un momento bellissimo. Ed è stato proprio vedere questa forza della natura, della vita, in atto, in quell’istante. L’ostetrica l’hanno poi cambiata nella notte, non era quella di prima. Quello è stato il grosso cambiamento per Claudia, che mi ha raccontato che si era abituata a un certo tipo di approccio, con le ostetriche del parto a casa, mentre lei era stata (in positivo) un po’ più dura, un pochino meno sensibile. Però il parto è andato tutto bene: due o tre ore (con il travaglio, forse neanche), e Frida è uscita.

[Anna] – E com’è stato vederla? 

[Andrea] – Pazzesco! Intanto con molto meno sangue di quanto si creda; nei film c’è troppo sangue!

[Anna] – È vero, nei film è davvero tutta un’altra storia.

[Andrea] – Ecco, non è vero, poi può succedere che ci sia qualche ferita, io mica so tutto bene a riguardo. Ma io ho visto questo parto, con molto meno sangue di quanto mi aspettassi. Molto meno, anzi di sangue non ce n’era neanche. Claudia sì, si è un po’ lacerata, le han dato due punti, ma non è una roba sanguinosa!

[Anna] – Non è così splatter!

[Andrea] – No, no, assolutamente! Poi oh, se qualcuno ha problemi, come dire, con dei “liquidi” del corpo è un’altra questione, ma bisognerebbe andare a vedere qual è il problema con quella roba! Ma per il resto, è tutta natura. 

Prendere la bambina in braccio

[Andrea] – E quindi, me l’hanno messa in braccio subito e non era una cosa da fare. Bisognerebbe che la prendesse in braccio subito la mamma!

[Anna] – Ah quindi l’han data in braccio a te, subito?

[Andrea] – Sì, anche per una questione di gestione dell’uscita della placenta, un po’ di cose. L’han data in braccio a me, a petto nudo, per carità, con il contatto. Però, anche da quello che dicevano le ostetriche del parto a casa, dovrebbe rimanere una cosa solo della madre, per lungo tempo. È stata 9 mesi dentro quella donna, in quell’ambiente.

[Anna] – Conosce la mamma, il suo odore, i suoi rumori. 

[Andrea] – Esatto!

[Anna] – Però allora raccontami di quell’incontro con te? La prima volta che l’hai presa in braccio.

[Andrea] – No no quella roba lì è stata pazzesca! Ha pianto poco, ha urlato un po’, guardava subito. Cioè, è stato super intenso vedere quell’esserino, e che io abbia capito subito che era Frida, come carattere, come intensità…

[Anna] – E come nome! Avete deciso il nome in quel momento lì, giusto? 

[Andrea] – Sì in quel momento lì. Appena è uscita abbiamo capito che non era Viola, perché Viola in qualche modo era un nome abbinato a una bambina più tenera, più soffice. Però Frida la vedevamo più determinata, aveva un carattere super deciso. E allora abbiamo capito che era Frida.

Lotus birth: perché non abbiamo tagliato il cordone

[Andrea] – Me l’hanno data in braccio ed ero molto attento, perché stavo cercando di seguire Claudia. Stavo cercando di “tenere a bada delle cose”, del tipo, a un certo punto, dopo un po’ l’ostetrica ci dice «Ma chi taglia il cordone ombelicale?» e io ho detto «No, non lo taglia nessuno il cordone ombelicale, rimane attaccato». «Eh no, ma va tagliato!», «No, adesso non lo tagliamo». E dopo un po’ quando mi ha riproposto di tagliare, ho ribadito «No, guarda che non tagliamo la placenta, rimane attaccata alla bambina».

Mi ha visto determinato e mi ha detto che andava bene e che ne avremmo parlato dopo con il dottore, e ce l’ha lasciata lì. Noi eravamo pronti a questo tipo di parto, chiamato lotus birth, per cui si lascia la placenta attaccata finché non si stacca naturalmente. Anche lì, perché bisogna staccarla prima? Ha i suoi tempi fisiologici, tre giorni e si stacca naturalmente. Perché? 

[Anna] – Per comodità? Prassi?

[Andrea] – Probabilmente! Non c’è nessuna indicazione medica su questa roba qua. Ci sono invece delle evidenze, molto più recenti, su quanto la placenta debba terminare una specie di “apporto” di valori e di nutrizione alla bambina. Non termina al momento dell’uscita, ma dopo! Mi hanno detto che si sta un po’ allungando almeno il tempo.

[Anna] – Sì, si tende a lasciare. Per lo meno, così l’ho vissuta anch’io. Non è stato così immediato perché, da quello che ho capito, ci sono una serie di cellule staminali, “cellule buone”, che servono proprio in quelle prime ore di vita del bambino. Quindi rispetto a dieci anni fa anche questo è cambiato. 

Partorire diversamente: perché farci delle domande

[Anna] – Però comunque il fatto di aver detto “no, la placenta rimane lì, non tagliate subito il cordone” era un vostro desiderio naturalmente, ma è stato, per te, anche un po’ un simbolo sociale? Un messaggio che volevi trasmettere?

[Andrea] – In quel momento esatto no, ero focalizzato solo su Frida, su Claudia, però in generale sì. Nel senso che io vivo queste cose con un po’ di foga, perché è un messaggio in cui credo – non tanto solo sulla placenta. Ci sono altre strade da percorrere, c’è l’opzione di avere altre strade. Anche il funambolismo è questa cosa qui: ci sono altre vie. Bisogna fare attenzione a quello che ci dicono, farci delle domande su quali sono le vie che ci vengono proposte, perché non sempre sono le migliori e sicuramente ce ne sono altre. Se non valuti le altre, prendi quelle che ti danno, punto. Non so quanti onnivori si sono fatti la domanda sul mangiare carne, mentre tutti i vegetariani se la sono fatta. Quindi, senza nulla togliere, fatti una domanda: scegli quello che stai facendo!

[Anna] – In modo consapevole!

[Andrea] – Esatto, invece normalmente è quello che capita. Per carità, tutti, anch’io, su mille altre cose…

[Anna] – Certo, è assolutamente vero e penso anche che in ambito medico, quando vai per esempio in un ospedale, tu stai pensando che le persone che si prendono cura di te ne sappiano molto più di te, perché hanno studiato, perché ci sono delle evidenze scientifiche che ovviamente non stiamo sindacando. Però penso che questo tema della domanda sia fondamentale, perché credo anche che ci siano tante coppie che arrivano al momento del parto senza tutta quella consapevolezza, perché magari, banalmente, intorno a loro neanche c’è un ambiente accogliente che fa capire che ci sono altre vie. E quindi, se tu adesso potessi rivolgerti a queste coppie, che magari fanno fatica a fare quella domanda, che cosa diresti loro per sbloccare questo meccanismo?

[Andrea] – Ascoltarsi e guardarsi in giro, perché quella via che viene proposta bisogna capire perché viene scelta. Questa può essere una domanda molto personale. Come mai scegli quella via? Perché fai il parto come si è sempre fatto? D'altronde, lo sappiamo che “come si è sempre fatto” non è una buona giustificazione per quello che si fa. Anche perché non è vero, non si è sempre fatto così. 

[Anna] – No, assolutamente. C’è stato già un bel cambiamento, banalmente tra la nostra generazione e quella dei nostri figli.

[Andrea] – Esatto, anche solo questo! Quindi, ecco, dicevo, ragionare sul perché ci viene proposta una cosa quando, spesso, il tema della salute è molto marginale. Il parto non è una malattia. Chiediamoci, va ospedalizzato o è una cosa fisiologica che va seguita? E, poi, per dire, i cavalli di razza vengono fatti partorire nelle condizioni “ideali” di parto: poca luce, nessuna invasione esterna. Le donne invece no, vengono sparate con la luce, con quattro o cinque persone intorno, con le gambe aperte in una posizione assolutamente contraria alla gravità, perché da seduti e coricati non si spinge bene, questo lo sappiamo. 

[Anna] – Sì ecco, bloccate su un lettino in orizzontale, certo. 

[Andrea] – Perché per i cavalli di razza sì e, per le donne, no? Allora, chiediamoci perché stiamo seguendo la strada che stiamo seguendo. Poi, seguila se è la tua. Questa è più mia moglie che mi “mette” un po’ di moderazione. Perché se ti mette al sicuro un parto in ospedale, è meglio così, rispetto che a un parto a casa con l’insicurezza, l’ansia, perché poi si trasmettono questi sentimenti al bambino. Dopodiché ci sono prove scientifiche che il parto in ospedale, come è stato fatto fino a qualche tempo fa, non è la miglior condizione per partorire, né per la donna, né per il bambino.

[Anna] – Le cose, grazie al cielo, stanno cambiando anche lì, però è giusto ricordare queste domande che bisogna farsi. Perché se no, altrimenti, le cose non cambiano. 

[Andrea] – Sì, pensiamo anche al periodo in cui il latte in polvere era stato molto sponsorizzato: era una questione economica e non di salute. Perché veniva consigliato anche alle donne che avevano il latte?

[Anna] – Era una prassi. Noi millennial siamo praticamente tutti venuti su con il latte in formula. Che poi sì, oggi si può scegliere di non fare solo l’allattamento materno, però ecco negli anni Ottanta e Novanta no, “non esisteva proprio”.

[Andrea] – E ti affidavi appunto a persone che, in teoria, sapevano.

[Anna] – Certo.

[Andrea] – Anche qui, è complicato “sapere”, perché ci sono mille questioni in mezzo e quindi scegli, guardati intorno, perché ci sono altre strade, prova a valutare quella che è più la tua.

Il ruolo degli uomini nel parto

[Andrea] – Devi essere serena quando partorisci, immagino. Sereni tutti e due, possibilmente. E l’uomo qua, di solito, va in crisi, perché è un po’ più l’uomo che ha queste “volontà” di controllo – e quindi ospedale, sicurezza – proprio perché il parto è una cosa su cui non ha il minimo controllo. Il parto è proprio una roba in cui noi uomini non c'entriamo quasi nulla. Vorremmo metterci, con il controllo, ma no.

[Anna] – E tu come ti sei posto? 

[Andrea] – Chiaro che il parto è un’esperienza completamente femminile. Io sono un po’ tranchant, e secondo me i ginecologi uomini dovrebbero lasciar stare. Dovrebbero essere solo donne. Poi, sono aperto eh, parliamone, però è una questione completamente femminile, non c’è niente da fare, poco da intrometterci. Abbiamo però un ruolo. Ora, mia moglie mi direbbe «Andrea, non parlare di cose non tue. Parla di cose che hai vissuto tu!». Quindi, parliamo delle cose che ho vissuto io. Ho avuto un ruolo di “controllo” nel senso di “tutela” del territorio, di sacralizzazione di un territorio, tenerlo pulito, anche solo dall’ostetrica che vuole tagliare il cordone, dal dottore che vuole far fare un’altra cosa. È una parte di cui possiamo farci carico noi (uomini), esercitando questo ruolo di “guardiani di un territorio sacro”. Bello, no? Limitiamoci a quello. 

[Anna] – È una bellissima immagine questa dei “guardiani di un territorio sacro”.

[Andrea] – È tanta roba, è importante, ma non possiamo partorire. Non possiamo intrometterci in dinamiche così della donna, femminili. Non credo di poter risultare maschilista; questa cosa qua, il parto, non ce l’abbiamo.

[Anna] – Questa direi di no.

[Andrea] – Bene, no?

[Anna] – Sì, sì. 

Come portare cordone e placenta a casa

[Anna] – Ritorniamo al racconto della storia. Perché tu mi hai lasciato un po’ in sospeso con questa frase forte «no, la placenta è lì, il cordone non si taglia». E quindi, nel concreto, poi com’è andata?

[Andrea] – Quindi nel concreto funziona così: ti porti un colino della pasta. 

[Anna] – Un colino della pasta?

[Andrea] – Sì, che compri precedentemente, e un pezzo di stoffa, un canovaccio. Dopodiché, metti la placenta in questo colino con il canovaccio. La placenta sembra una bistecca, tipo fegato – non so, guardatela com’è fatta una placenta, non sanguina, ha pochissimo sangue – e te la porti a casa insieme alla bambina. Dopo aver detto anche al dottore che “no, quella cosa lì non la taglierai”.

[Anna] – Quindi a un certo punto i dottori hanno detto “va bene”?

[Andrea] – Mi hanno chiesto «Adesso tagliamo?», e io ho detto «Non la tagliamo, Claudia sta bene e noi andiamo via subito». Lei ha partorito tipo alle 4 di notte e alle 7 eravamo in camera nostra a dormire.

[Anna] – Ah quindi siete andati a casa subito? 

[Andrea] – Subito! Frida stava bene, Claudia stava bene, e sarebbero venute le ostetriche il giorno dopo a casa. I dottori provavano a dirci “No, ma dovete…”, invece noi non dovevamo niente. Quello che ci dicono che “dobbiamo” fare in realtà sono procedure. Nove volte su dieci basta una firma in cui ti prendi la responsabilità e te ne vai. Io ho firmato un paio di cose su cui mi sono preso la responsabilità e sono uscito. Frida sta benissimo e ci sono mille casi di persone che stanno bene a casa e male in ospedale. Non vale un caso, ovviamente.

Ho letto da poco un'intervista che mi ha fatto molto arrabbiare, su una questione che è avvenuta durante un parto a casa in cui la bambina ha avuto delle complicazioni serie. È vero, certo, può capitare, ma possiamo parlare delle singole ostetriche che hanno fatto quel casino, non possiamo parlare di “tutti” i parti a casa. Se no, allo stesso modo, dovrebbe bastare un parto in ospedale con un feto morto (e ce n’è) che salta tutta la teoria [della sicurezza, NdR] degli ospedali. Quindi non prendiamo il caso singolo, prendiamo diversi casi.

Comunque, tornando a noi. Le procedure non sono niente di obbligatorio. In ospedale, nelle pratiche mediche, a parte le procedure di emergenza, non c’è nulla di obbligatorio, puoi scegliere un’altra strada – devi saperla, devi conoscerla, devi documentarti prima – ma quando ti dicono “si deve fare così”, nove su dieci non è vero, si può fare in un altro modo.

[Anna] – Quindi, allegri e felici siete tornati a casa con la placenta nello scolapasta…

[Andrea] – Giallo!

[Anna] – Bellissimo, beh immagino che sia rimasto negli annali, tra i ricordi di famiglia. E quindi il cordone ombelicale poi si è staccato da solo?

[Andrea] – Dopo tre giorni si è seccata la parte vicina alla pancia e si è staccato. Frida ha un ombelico bellissimo!

[Anna] – Beh, certo, è uscito naturalmente

[Andrea] – E vabbè da qua si aprono altre strade, perché con la placenta si possono fare dei preparati per “curare” la bambina e/o la mamma. Noi non li abbiamo fatti, l’abbiamo messa in un vaso, sotto a una pianta, una Camelia invernale. Ed è lì.

[Anna] – È rimasta lì, bellissimo.

Il puerperio e la cura del papà

[Andrea] – Il giorno dopo sono venute le ostetriche, e si è aperto un periodo di cura della famiglia, da parte mia, come papà, stupendo.

[Anna] – Esatto, come è stato il puerperio? Come l’avete vissuto?

[Andrea] – Stupendo! Il puerperio è stato uno dei periodi più belli della mia vita. Avevamo un’armonia, un focus su di noi, perché chiaramente era importante. E quindi è stato proprio bello, bello, bello. Dormivamo un casino, soprattutto loro due, ovviamente, Frida e Claudia.

[Anna] – E lì ti sei sentito, perché non ti ho fatto una domanda, ovvero quando ti sei sentito papà per la prima volta? Qual è stato il momento in cui hai detto “sì, io sono il papà di Frida”?

[Andrea] – Ma sai che non lo so? Non mi viene in mente. Probabilmente già da quando l’abbiamo concepita. Da lì è iniziato a cambiare qualcosa nella presa in cura di Claudia con Frida, e nel partecipare a tutto quello che è stato questo percorso. Dal parto coi delfini ad averla in casa. È stato bello perché è stato molto partecipato. È vero che è femminile, è vero che Claudia aveva in qualche modo l’ultima parola, è anche vero che non sono stato “eliminato” dal processo. Perché è sì femminile, ma l’insieme è fatto da tutti e tre.

[Anna] – Il tuo sostegno era importante. 

[Andrea] – Esatto, avevo questo ruolo, appunto, di tutela, conforto, assistenza, cura. Proprio la cura è stata la base del periodo del puerperio. Curarsi di qualcuno è bello ed è curativo anche per te stesso. È un atteggiamento che sviluppi – magari verso qualcun altro per certi aspetti più facilmente che verso te stesso – lo sviluppi, lo coltivi e puoi continuare a portare avanti verso gli altri e verso di te.

[Anna] – Assolutamente. 

“Sto sbagliando come genitore?”

[Anna] – C’è un’altra immagine che mi è venuta in mente pensando al mondo del funambolismo che riguarda il tema della caduta. Una caduta magari può arrivare, me lo confermerai, dopo una distrazione, un errore (se possiamo chiamarlo così?). E, a proposito di genitorialità, con le distrazioni, arresti, sbagli e cadute, siamo all’ordine del giorno. Come ci si rialza, Andrea? Soprattutto per noi che siamo normalissimi equilibristi.

[Andrea] – Guarda la caduta sul cavo, se succede, potrebbe essere anche molto pericolosa a livello di incolumità fisica. Sulla questione della caduta per i genitori, apparentemente e fisicamente, magari “non succede nulla”, però è difficile valutarla perché non sai mai a che cosa porterà. Tu puoi fare anche tutto bene, ma che cosa vuoi? Vuoi che tuo figlio diventi come vuoi tu? Allora questo è il grande errore, perché tuo figlio è tuo figlio. Una cosa che mi sta insegnando la mia bimba è l’alterità, la diversità da rispettare, da integrare come un momento di ricchezza (e di riflesso anche di come sei tu), perché comunque Frida è un altro essere. E quindi la caduta rispetto a cosa? Sbagliamo che cosa? Tu puoi dire rispetto al “suo bene”, però la domanda qui diventa “quanto ci metti di tuo nel proiettare che cos’è il suo bene?”. 

Questo è stato uno dei temi con mio padre, molto complesso. Probabilmente ancora non risolto, non lo so. Lui voleva delle cose per me, io ne ho fatte altre e son contento di averne fatte altre. Però il fatto è che sicuramente lo faceva a fin di bene. E adesso inizio anche a vedere quello che poteva essere un suo “aspetto di cura” nel volere per me certe cose, perché ovviamente erano quelle che per lui portavano bene. Però è una questione di risolversi. 

La miglior cosa che possiamo fare come genitori è prenderci cura delle nostre questioni personali. Un genitore sano e sereno (e non dico di esserlo, ma è quello che vorrei) è la miglior situazione per un figlio, non c’entra niente che cosa fai per lui e come sei per lui. Quindi la caduta, boh, che cosa vuol dire alla fine? Sto sbagliando come genitore? O sto facendo bene? È un po’ un terno al lotto, non lo sappiamo che cosa uscirà. Quello che possiamo fare è sostenere Frida, starle vicino in quello che fa e che farà, e farle sapere che siamo lì e la amiamo, qualunque cosa faccia. Questa cosa qua è complicatissima. Anche verso di noi, dobbiamo essere accondiscendenti, perché sbaglieremo, anche se è difficile definire il termine “sbaglio”.

[Anna] – Perdonarsi. 

[Andrea] – Sì, perdonarsi e comunque provarci. Adesso Frida segue una scuola steineriana, e una delle cose che ti dicono è che “il genitore che è in cerca, che è sulla sua propria strada, insegna quello”. Quindi non insegni le cose giuste, ma insegni che stai cercando. E quindi anche tu stai crescendo insieme a lei. Il “giusto e sbagliato” è molto complicato. Si fanno delle cose, “le cadute”, che ti sembrano tremende, che poi ti rimproveri e non dovresti, ma dovresti capire (anche insieme a lei) perché l’hai fatto.

Ci sono delle cose per cui ovviamente dico “cavoli, avessi fatto diversamente, non mi fossi arrabbiato quella volta, avessi dato un consiglio diverso, avessi seguito in un altro modo, fossi stato più presente”. Però diciamo che se sei in cerca di una relazione di cura, di sostegno, delle cose le farai come potrai. Quindi se ti perdoni e sei benevolo verso di te, sarai benevolo anche verso di lei e le insegnerai che la benevolenza è una cosa importante.

La libertà di realizzarti

[Anna] – Ho ascoltato delle tue interviste in cui parli del tuo lavoro, e racconti che quando cammini sul cavo, in questa camminata sospesa, senti di vivere degli attimi di libertà”, in cui sei sganciato dai problemi, dalle necessità, dai pensieri sul passato, sul presente e sul futuro. E ora ti faccio una domanda un po’ provocatoria che ha a che vedere con la paternità. Credi che la paternità, invece, ti porti ad avere drasticamente i piedi per terra? E quindi che in un certo senso limiti questa tua libertà o quegli attimi?

[Andrea] – No, no, no. C’è un punto interessante: i piedi per terra sono fondamentali per essere libero. Cioè, sul cavo sei libero se sei forte forte e radicato, se no sei in preda al vento, sei una foglia ed è un casino, perché il vento ti porta via. Sul cavo sei libero perché sei molto radicato e nella vita sei libero perché sei molto radicato. Questa è la mia idea: libero di muoverti, nel senso libero anche di trasformarti, di perderti, perché sei solido. E invece con un figlio, apparentemente, certe cose non le puoi più fare, anche solo perché hai meno tempo.

Banalmente, da quando è nata Frida ho smesso di arrampicare, non che io fossi un appassionato, però è una cosa che ho smesso di fare. Ma, dall’altra parte, ho guadagnato del tempo con lei, che non c’entra niente con l’arrampicata, ma è un tempo più intenso, di relazione, di cura. Non ha paragone. Cambieranno delle cose. E sulla libertà, diciamo che la libertà di cui parlo è quella di realizzarti, sganciato da un sacco di sovrastrutture (che possono essere appunto quelle del passato, presente e futuro), di cui ti liberi sul cavo, e rimani autentico per quello che c’è sul momento.

Se il cammino di realizzazione è quello, con un figlio, sarai più libero di realizzarti in quello. Se il tuo cammino, invece, è quello di diventare qualcos’altro, diciamo un “manager”, come simbolo di una vita super impegnata che guarda il valore nel successo quantificabile, forse se vuoi dedicarti a tua figlia dovrai darle del tempo. Ma al centro che cosa c’è? L’essere umano. E se da tutte queste esperienze tu stai nutrendo il tuo essere umano, allora sarai libero. Se invece stai nutrendo il tuo ruolo di manager, non stai trovando la vera libertà, perché stai diventando schiavo di un ruolo. E la libertà personale l’hai persa da un pezzo, quando ti sei identificato con quel ruolo.

«Mia figlia se la caverà»

[Anna] – Potrei rimanere su questa domanda per ore, ma vorrei fartene un’altra, che è altrettanto difficile, perché è un tema delicato quello che vorrei affrontare, spesso tabù, che arriva quando si arriva genitori: sto parlando della morte. Per molti questo aspetto entra nel dibattito famigliare quando arriva un bambino. Perché uno può iniziare a farsi la domanda “ma se io non ci sarò più, che cosa ne sarà dei miei figli?”. Ora io ti faccio questa domanda consapevole del fatto che tu fai un mestiere rischioso, perché ti prendi dei rischi – so che hai fatto delle camminate non in sicurezza, senza il cavo di salvataggio. Quindi. volevo chiederti, il fatto di essere genitore aggiunge una dimensione extra alle paure che hai? E, una su tutte, la paura della morte?

[Andrea] – In relazione alla morte non tanto, non ha aggiunto paure, avevo già delle riflessioni in proposito prima e le camminate non in sicurezza le ho fatte anche quando Frida era già nata. Sul tema della cura relativo al quando non ci sarò più, come farà, credo che mia figlia se la caverà.

Mi spiego meglio, la fiducia nel bambino e nella bambina fa parte di quel rapporto di cui ti parlavo prima. Un rapporto in cui tu puoi sbagliare, e anche lei o lui possono fare delle cose che tu non vorresti facessero. Ma se di fondo c’è una fiducia in lei (sia perché ho una figlia sia se vogliamo usare il femminile sovraesteso) le dai gli strumenti per cavarsela. «Tu te la caverai», le direi. Ciò non vuol dire che “me ne frego” e che adesso “vado a drogarmi” perché penso che se la caverà. Scusa, è un esempio un po’ del cavolo forse.

[Anna] – No, no, ma vai, continua. Frida non ascolterà questo podcast ora, lo sentirà magari più avanti, [ridono, NdR].

[Andrea] – Ecco. Non è quindi per fregarsene. Perché siamo delle figure di riferimento, fino a un certo punto. Ha dieci anni e già (ci) sta mettendo un po’ in dubbio, giustamente. Però rimarranno queste figure di riferimento e se si sente dire, da chi ha vicino, che ce la fa, con una trasmissione di fiducia, probabilmente si sentirà più tranquilla nel fare il suo percorso. Non mi spaventa tanto la morte in questo senso. Mi spaventa, ma non “per lei” in quanto non ci sarò più per lei; spaventa più “per me” che non ci sarò con lei. Mi fa più paura questa cosa qua perché potrei non essere più vicino a lei. 

La paura del futuro che avrà

[Andrea] – Quello che mi preoccupa di più in questo momento è la domanda: «che futuro avrà lei?», perché “apparentemente” sulla Terra non sta andando benissimo. Se ti guardi un po’ in giro, c potrebbe essere un futuro complicato, in cui forse la libertà verrà molto molto meno, in cui ci sarà molta più costrizione, controllo, forse povertà, forse disuguaglianza. E questo mi spaventa di più, no? La paura del futuro che avrà. In un certo senso, non esserci in quel periodo è quasi una consolazione. Lo so, l’ho detta un po’ grossa, però a volte c’è questa tentazione di dire "vabbè, tanto io non ci sarò più”. Però ci sarà lei. 

E questo mi porta a un’altra domanda: che cosa posso fare io perché vada un po’ meglio? Poi in realtà oscillo, perché dall’altra parte c’è questa fiducia nella vita, grande, che ci porterà a qualcos’altro. Anche quello che sta succedendo è parte di questo processo infinito che è la vita, in cui se affidi i tuoi figli alla vita, sai che stanno là e dici, okay, è una forza talmente grande che porterà dove deve portare. 

Il futuro che avrà Frida sicuramente non coincide con quello che vorrei io, che posso immaginare, anche per limiti. Perché sarà talmente imprevedibile che la mia fantasia ha dei limiti e non riuscirà a prevedere quelle cose, anche nel bene. Questa è un po’ la cosa che mi spaventa rispetto alla cura che posso prendermi di Frida. La nascita ti mette chiaramente di fronte al fatto che c’è un processo in atto, di cui la nascita è parte. In un certo senso questo in un momento ce l’hai sempre davanti agli occhi, in un altro te la perdi un po’ come idea. E quindi anche la morte fa parte di questo processo.

Ultimamente mi sento un pochino più riappacificato con il concetto di morte, quindi più pronto a morire. Poi questo lo sapremo solo nel momento in cui succede, perché è facile parlarne finché sei sano e vivo su un divano. Però, ecco, la mia idea consiste nella capacità di riuscire ad affrontare anche questo momento come una parte di questo processo enorme e favoloso e terribile che è la vita.

[Anna] – Bene. Io ti ringrazio, Andrea. Hai dato veramente una storia, a me e alle persone che ci ascoltano, emozionante e grazie per averla condivisa.

[Andrea] – Grazie a te! È un piacere!

[Anna] – A presto!

Credits

Grembo, racconti di pancia” è un podcast di Anna Acquistapace ed è sostenuto da Nidi Fioriti, un'iniziativa che coltiva l’alleanza tra scuola, famiglia e territorio, a partire dai più piccoli. 

Musiche © Pablo Sepulveda Godoy

Produzione video © Andrea Sanna

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